//AGROMAFIE E CAPORALATO: uno sguardo alle infiltrazioni mafiose in agricoltura – a cura della redazione di BSOC

AGROMAFIE E CAPORALATO: uno sguardo alle infiltrazioni mafiose in agricoltura – a cura della redazione di BSOC

Cos’è il caporalato?

Ora che ci siamo lasciati alle spalle l’Estate 2019, è il momento giusto per riflettere su una piaga che affligge il nostro territorio e che si intensifica nel periodo estivo: il caporalato.

Quando parliamo di caporalato, cosa intendiamo precisamente? Parliamo dell’annoso problema dello sfruttamento criminale della manodopera a basso costo. Al centro di questo meccanismo criminale c’è la figura del caporale, che raccoglie soggetti disperati ed emarginati per portarli a lavorare prevalentemente in aziende agricole a paghe irrisorie (ci torneremo tra poco). Qui si pone come punto di contatto con le aziende, con le quali contratta il prezzo per la manodopera.

I numeri di questo fenomeno, dannoso a livello economico e ancor più a livello sociale, sono spesso ben più imponenti di quanto uno si aspetti. Vediamone i principali, tratti dal Quarto rapporto Agromafie e Caporalatostilato ogni due anni dal FLAI (Federazione Lavoratori Agroindustria), un sindacato di categoria della CGIL. I dati che vedremo sono i più recenti e risalgono al 2018, in attesa dell’uscita del quinto rapporto, prevista per il 2020. Iniziamo dalle dimensioni del caporalato: sul totale dei rapporti di lavoro in agricoltura, il 39% sono irregolari e 300.000 lavoratori agricoli (quasi il 30% del totale) lavorano per meno di 50 giornate all’anno. Precarietà e irregolarità si traducono spesso in vero e proprio sfruttamento, portando il numero di lavoratori agricoli a rischio di ingaggio irregolare e sotto caporale tra i 400.000 e i 430.000. Solamente nel 2017 sono 7265 le aziende sottoposte a controllo da parte dell’ispettorato del lavoro e più della metà hanno presentato irregolarità. Ne consegue che sono state deferite 284 persone, di cui 71 tratte in arresto, per il reato di sfruttamento lavorativo e caporalato (603 bis c.p, torneremo sulla cornice legale in un secondo momento).

Il rapporto continua con la descrizione delle condizioni a cui sono sottoposti i braccianti. Un bracciante lavora in media tra le 8 e le 12 ore, con una paga tra i 20€ e i 30€ al giorno. Il lavoratore può anche essere pagato a cottimo, ricevendo 3/4€ per un cassone da ben 375kg. A questi si aggiungono i costi per il trasporto e per i beni di prima necessità, che i braccianti devono corrispondere al caporale. Come era facile attendersi, i lavoratori maggiormente sfruttati sono quelli a trovarsi in posizione vulnerabile, ed è così che le donne sotto caporale percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi e i lavoratori migranti (che costituiscono una percentuale importante del totale dei lavoratori sfruttati) arrivano a percepire anche 1€ all’ora. Infine, le condizioni disumane in cui vengono trasportati i braccianti hanno in passato portato a tragedie, che hanno tristemente popolato la cronaca italiana. Nell’estate 2018, un incidente avvenuto nel foggiano ha coinvolto un camioncino che trasportava braccianti migranti, causando la morte di dodici di loro. Questo episodio fu così impattante, da smuovere fortemente l’opinione pubblica, portando a un nuovo sciopero dei braccianti e a una generale reazione della politica, con diversi rappresentanti delle istituzioni, tra cui Conte e Salvini, che si recarono a Foggia il giorno seguente.

Le regioni citate nel rapporto FLAI CGIL sono sette: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia. Spicca la presenza di tre regioni del centro-nord Italia e ciò potrebbe cogliere molti di sorpresa, perché se ne parla pochissimo. Per comprendere a fondo il fenomeno del caporalato, occorre spogliarlo dei pregiudizi e capire come questo sia più vicino di quanto si pensi, riguardando anche regioni come la Lombardia, dove alcuni di quelli che stanno leggendo hanno vissuto e studiato a lungo.

La cornice legale

Come abbiamo già avuto modo di vedere, il caporalato si configura come reato di Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis del codice penale). Viene punito, se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, con la reclusione dai cinque agli otto anni e una multa tra i 1000 e i 2000 Euro per ogni lavoratore reclutato. La pena si applica non solo a chi recluta la manodopera allo scopo di farli lavorate presso terzi (il caporale), ma anche a chi utilizza tale manodopera (il rappresentante dell’azienda agricola). L’articolo prevede, infine, una serie di condizioni, delle quali almeno una deve sussistere per poter configurare il rapporto lavorativo come “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”: retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto nei contratti collettivi nazionali o territoriali, la violazione delle norme relative agli orari e periodi di riposo, la violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene e, infine, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro degradanti.

Il ruolo del crimine organizzato

Per introdurre il ruolo che viene giocato dal crimine organizzato nello sfruttamento di lavoratori agricoli, da cui il termine “agromafie”, faremo riferimento alle parole del dott. Gian Carlo Caselli in un’intervista del Luglio 2018 di Claudio Scaccianoce per Linkiesta. Numerose sono le sue interviste sul tema e i libri in cui tratta approfonditamente questo argomento.

Caselli è entrato in magistratura nel 1967, occupandosi a lungo di inchieste sul terrorismo. Nel 1992, dopo le morti di Falcone e Borsellino, ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Palermo, per occuparsi in prima linea di mafia. Ora dirige in Coldiretti la segreteria scientifica dell’Osservatorio sulla criminalità nel settore agroalimentare. Secondo Caselli, il settore agroalimentare ha “tutte le caratteristiche per attirare l’interesse delle mafie”, dal momento che si presenta come un’attività che comporta scarso rischio ed esposizione, ma allo stesso tempo fortissimi guadagni. Occorre cambiare, insiste Caselli, il modo in cui percepiamo il crimine organizzato: non più una mafia “militare”, ma una mafia “imprenditoriale”, abile nello sfruttare le opportunità in diversi settori. Nel caso del settore agroalimentare, questa opportunità risulta particolarmente interessante per il crimine organizzato a cause di una normativa obsoleta, la cui modernizzazione permetterebbe, insieme alla già citata legge sul caporalato, di contrastare più efficacemente questo fenomeno.

Le attività delle agromafie non si limitano alla intermediazione illecita di manodopera, ossia il “classico” caporalato, ma si estendono a diverse attività, tra le quali tratta di esseri umani, import/export di prodotti agroalimentari, frodi all’Unione Europea, riciclaggio ed estorsioni, infiltrazione nella gestione dei mercati ortofrutticoli, pesca di frodo e infiltrazione nel settore delle energie rinnovabili legate alle attività agricole (a proposito di quest’ultima, qualora vogliate approfondire, vi consiglio di leggere l’articolo “Green mafia: le mani di Cosa Nostra sulle energie rinnovabili” di Roberta D’Amore sul blog di BSOC).

Nonostante il ruolo di peso giocato dalla mafia, sarebbe limitante considerare il caporalato come un fenomeno unicamente mafioso. Secondo Yvan Sagnet, attivista tra gli organizzatori del primo sciopero di lavoratori stranieri nelle campagne di Nardò in Puglia, “la questione del caporalato non nasce con la criminalità organizzata”. In altre parole, la mafia è stata attirata dal sistema del caporalato, ma non lo ha creato. Il caporalato è quindi una questione strettamente legata al lavoro e alle imprese agricole, dove alcuni soggetti senza scrupoli si arricchiscono e si avvantaggiano sulla competizione onesta attraverso lo sfruttamento di situazioni di indigenza.

Le sfide del futuro

Guardando al futuro, un grande segnale di speranza nella lotta al caporalato proviene dalla nomina a ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali di Teresa Bellanova, ex bracciante e sindacalista, che in passato ha anche ricoperto la carica di segretaria generale provinciale di FLAI/CGIL. Le sue parole, all’indomani della nascita del Governo Conte II, fanno trasparire che la lotta al caporalato sarà, nell’agenda del Ministero, un tema di primaria importanza. In un comunicato stampa, il ministro Bellanova ha tessuto le lodi dell’articolo 603 bis del codice penale sopra citato. La legge viene considerata all’avanguardia anche a livello europeo e, secondo il ministro, sta riscuotendo risultati importanti. La linea indicata dal ministro è quella di una collaborazione con le aziende per estirpare il caporalato, che significa concorrenza sleale a danno delle imprese che operano nella legalità. La collaborazione, aggiunge il ministro, deve estendersi ai consumatori e alla grande distribuzione perché “se una lattina di pomodoro costa 50 centesimi, da qualche parte qualcuno sta pagando un prezzo altissimo, spesso con la vita. Una spirale che va assolutamente spezzata”.

Dopo questa nota di speranza, vorrei concludere dandoci l’appuntamento all’estate 2020, quando è prevista l’uscita del Quinto rapporto Agromafie e Caporalato del FLAI. Il rapporto rappresenta un’utile occasione per fermarsi a riflettere e giudicare quanto è stato fatto nei due anni precedenti e la speranza di tutti è quella di trovare una situazione diversa da quella che viene descritta in questo articolo, che possa giovare alle numerose aziende virtuose di questo Paese e, soprattutto, alle condizioni oggi inaccettabili di centinaia di migliaia di braccianti.