di Emanuele Borghesan e Vittorio Cugnin
Un’aula bunker costruita a tempo di record. Controlli, metal detector prima dell’ingresso, reti metalliche altissime controllate a vista da polizia, carabinieri, esercito, forestali e guardie giurate. Sono 147 gli imputati che dovranno difendersi dalle accuse, ma non si trovano davanti al tribunale di Palermo: non è “u maxi”, lo storico maxiprocesso di Palermo. Le accuse, invece, sono della Direzione distrettuale antimafia di Bologna. Siamo in Emilia-Romagna, ma si tratta comunque di mafia: è il più grande processo alla ‘Ndrangheta al nord dell’Italia finora, e riguarda precisamente le strutture ‘ndranghetiste che hanno influenzato il tessuto economico dell’Emilia-Romagna per tanti anni.
La cosca calabrese
Non si tratta per caso di un’associazione nata in Emilia-Romagna, ma è un gruppo da sempre legato alla cosca Grande Aracri di Cutro, originata a Cutro nella provincia di Crotone. L’organizzazione madre prende il nome dall’omonimo boss, Nicolino Grande Aracri, e i suoi fratelli, Ernesto Grande Aracri e Domenico Grande Aracri, i quali sono stati arrestati entrambi nel 2015 nella retata di Aemilia. Essendo noti già dagli anni 2000 per delle faide con cosche concorrenti nel Crotonese, hanno influenzato anche “l’impresa figlia” che operava in Emilia-Romagna. Nicolino ed Ernesto Grande Aracri sono stati condannati all’ergastolo in Appello durante il processo che seguiva una simile operazione chiamata Kyterion, conclusa anch’essa nel 2015. Le perquisizioni avvenute nelle proprietà di Nicolino Grande Aracri suggeriscono anche quanto sia grande l’associazione, in quanto hanno rilevato l’esistenza di un conto corrente “cassaforte” con una disponibilità liquida pari a 200 milioni di euro, insieme a una fideiussione che lo legava a un possibile appalto milionario per la costruzione di appartamenti nel nord Africa. Nel processo fatto con rito abbreviato i capigruppo responsabili per l’Emilia-Romagna sono stati giudicati i fratelli Sarcone, dei quali Nicolino Sarcone è ritenuto reggente del gruppo fino al suo arresto nel 2015, poi sostituito dal fratello Carmine (anche lui indagato). Il gruppo emiliano aveva raggiunto dimensioni talmente impressionanti da potersi godere una certa autonomia, un certo grado di libertà nel prendere decisioni, anche senza aspettare il consenso della “casa madre” calabrese.
Le attività in Emilia-Romagna
Ciò che emerge dal rito abbreviato riflette pienamente le attività principali che la sezione emiliana della ‘ndrina di Cutro ha svolto negli ultimi anni, rimanendo comunque sempre nell’ombra senza gravi fatti criminali: usura, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di capitali di illecita provenienza ed emissione di fatture false, il che vuol probabilmente dire nient’altro che riciclaggio di denaro e, non da ultima, associazione mafiosa.
Si trovavano tante imprese di edilizia, complessivamente più di 25, alle quali è stato confiscato parzialmente o interamente il capitale aziendale e diversi altri beni, incluse diverse macchine di lusso. In Emilia-Romagna, gli ‘ndranghetisti hanno trovato un’occasione d’oro soprattutto nel maggio del 2012, quando nella regione si registrarono varie forti scosse di terremoto, con epicentro vicino a San Felice sul Panaro, al centro del triangolo fra Ferrara, Mantova e Modena, dove sono stati registrati la maggior parte dei danni. Tutto ciò avveniva subito dopo il tentativo di infiltrarsi nelle gare di appalto per i lavori di ricostruzione. Nonostante l’istituzione di un “pool” antimafia, cioè un gruppo di esperti per evitare che la criminalità organizzata si potesse intromettere nelle attività di ricostruzione (com’era successo dopo il terremoto de L’Aquila nel 2009) e la conseguente pubblicazione di una “White List” per le imprese ritenute affidabili, ci sono stati casi in cui la ‘Ndrangheta ha fatto buoni affari. Ad esempio, la Bianchini Costruzioni, una delle imprese il cui patrimonio è stato sequestrato in seguito al processo Aemilia, aggirava l’ostacolo amministrativo con la complicità di un dipendente comunale corrotto che aveva truccato le carte. Il vantaggio ottenuto, però, non è durato molto: a giugno 2013 la Bianchini è stata definitivamente esclusa dalla White List, in quanto sospettata di aver lavorato anche il materiale eternit nei suoi depositi, dove spostava le macerie provenienti dalla demolizione di edifici danneggiati dal terremoto.
La sentenza di secondo grado della parte del processo in rito abbreviato parla ancora più chiaro delle attività del gruppo mafioso: “Dal mondo dell’edilizia, ai trasporti, ai rifiuti, al movimento terra, dei quali il sodalizio calabro-emiliano assumeva in breve tempo il sostanziale monopolio”. Così, nel corso degli anni, la ‘Ndrangheta “pur manifestando costantemente la propria presenza in Emilia con numerosissimi episodi intimidatori e fatti di sangue, mostrava la propria potenza organizzativa con una peculiare capacità reattiva e sapeva al contempo operare sempre più a 360 gradi, con una sorprendente abilità mimetica per meglio infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale sano della regione”.
Il processo
Una prima parte del processo è giunta a conclusione, grazie al lavoro di cinque magistrati all’opera, che hanno dovuto gestire la mole di centoquarantotto imputati, oltre alle quaranta parti civili. Dai primi estratti dei verbali riempiti da Giuseppe Giglio, il quale racconta una carriera criminale legata alle imprese emiliane, si legge che si utilizzavano false fatture per operazioni inesistenti, che secondo gli inquirenti si tratta di affari illeciti di milioni di euro. Il processo Aemilia è un maxiprocesso di dimensioni non simili a quelle del 1989 a Palermo, ma altrettanto significativo. In generale, il processo non è giunto al suo termine senza problemi o interruzioni. Nel 2017 si è manifestato un braccio di ferro tra l’avvocato Carlo Taormina (il difensore della famiglia Iaquinta) e Antonella De Miro (ex prefetto di Reggio Emilia), che ha portato il legale a denunciare il prefetto per abuso d’ufficio, falso ideologico e calunnia. La deposizione dei testimoni è saltata. Nello stesso maggio del 2017 si profilava un forte attrito tra la corte e i penalisti che reclamavano la possibilità di astenersi dalle udienze. I giudici hanno posto il caso alla Corte Costituzionale, ciò nonostante le udienze sono proseguite. A fine settembre 2017 spuntò un pentito, Antonio Valerio, che raccontò di omicidi, nomi, dinamiche interne e segreti di quella che lui descrive come una cosca operativa a Reggio e dintorni. Un altro pentito, Francesco Marino, parlava invece dei progetti di uccidere un giornalista investigativo e un questore che non poneva la firma su un atto tanto richiesto dal clan. Si inasprivano, inoltre, i toni tra i giornalisti e gli avvocati, questi ultimi accusavano i primi di aver scritto cose false sul processo. Il 22 maggio dell’anno scorso, finalmente, sono state rese note le richieste di pena, con 1712 anni complessivi di reclusione, come principale capo di imputazione l’associazione mafiosa.
Le sentenze
Il risultato non è molto differente: il 31 ottobre del 2018 sono state annunciate le condanne in primo grado del processo Aemilia, con 1200 anni complessivi (118 condanne, 24 assoluzioni). Le pene più pesanti si attestano intorno ai 20 anni di reclusione, con il massimo di 21 anni e 8 mesi di reclusione per Carmine Belfiore, pregiudicato per vari reati e anche affiliato alla famiglia Sarcone. Il filone celebratosi con rito abbreviato è già giunto alla sua fase conclusiva, con la pronuncia della Cassazione sempre a fine ottobre che ha confermato le 40 condanne con solo 4 rinvii e 2 diminuzioni di pena.
La vicenda Iaquinta
Un nome che ha sicuramente aiutato ad aumentare la notorietà del processo Aemilia e a diffonderne le notizie è quello di Vincenzo Iaquinta, l’ex giocatore della Juventus e campione del mondo del 2006. In realtà il processo riguardava soprattutto il padre, un imprenditore d’edilizia in Emilia-Romagna, condannato ai 19 anni richiesti dal procuratore per associazione mafiosa. Egli è riuscito a costruirsi una fortuna grazie alla sua impresa di costruzioni. I guai sono iniziati nel 2012, quando è stato escluso dalla White List sopra citata per le imprese d’edilizia da incaricare per la ricostruzione post-terremoto. Il motivo è stato la sua frequentazione di persone molto legate al clan dei Grande Aracri di Cutro.
Suo figlio, invece, accusato di un reato relativo al porto d’armi personale, è stato condannato a due anni di reclusione, ma nel suo caso è caduta l’aggravante di associazione mafiosa. Vincenzo Iaquinta avrebbe consegnato due pistole al padre, il cui porto d’armi era stato sospeso nel 2012. In ogni caso, probabilmente non passerà un solo giorno in carcere, dato che è stata prevista la sospensione della pena.
Il processo appena concluso dimostra come “le mafie” del XXI secolo vertono le loro attività ora e per tutto nel nord d’Italia, nelle regioni in cui l’economia è più fiorente sicuramente del sud spolpato nello scorso scorso secolo dalle stesse organizzazioni criminali che stanno tessendo la tela o la piovra come direbbe qualcuno su tutta la penisola. Le istituzioni europee dovrebbero porsi il carico di intervenire seriamente a sussidio del nostro paese data l’emergenza che fuoriesce da questo processo che sottolinea la pericolosità delle “mafie” nel nord prima definito inattaccabile.