Alla sua seconda regia, Pif si racconta alla comunità bocconiana, di Camilla Sacca
Il primo regista che ha incontrato nella sua vita lo definisce “frustrato e sofferente”, la conferma che è meglio non intraprenderle neanche certe strade, perché “Mica voglio finire come lui” ed è sempre meglio rimanere fedeli al divano, che non delude e non riserva mai brutte sorprese.
Qualcosa però deve avergli fatto abbandonare quel giaciglio sicuro, perché Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, è oggi attivo su tutti i fronti, dal cinema alla televisione, e di frustrato e sofferente non ha proprio niente.
Viene in bicicletta all’evento Bocconi organizzato in suo onore lo scorso martedì, dove ad accoglierlo sono più di trecento studenti, alcuni così desiderosi di sentirlo parlare da mettersi in coda con largo anticipo perché non erano riusciti a registrarsi.
E’ un ospite loquace Pif, che ripercorre tutta la sua storia senza imporre alcuna barriera tra sé e chi lo ascolta. Il suo è un racconto vero, caratterizzato da chicche come la zia Gabriella che, preoccupata del suo futuro, gli propose di lavorare con lei nelle assicurazioni, e l’amico Giulio che, prendendo la macchina alle 3 di notte per andare a mangiare i cornetti, lisciava senza saperlo il cancelletto di Totò Riina.
L’inizio da cameraman, i corsi di “media practice” a Londra, il set de “ I cento passi” e poi Milano, “Le Iene”, la prima vera scommessa con “Il Testimone”, fino ad arrivare a “La Mafia uccide solo d’Estate” e “In Guerra per amore”, suo ultimo film. Attraverso le tappe della sua carriera, Pierfrancesco ci parla di Mafia con tutta la naturalezza e la spontaneità che lo caratterizzano, riuscendo come sempre a mischiare ironia e serietà, denuncia e autocritica.
Quando si hanno 20 anni a Palermo nel 1992, non si può non rimanere segnati. Dichiarando senza mezzi termini l’astio verso Andreotti e la DC, figlio di genitori che “Andreotti e Lima sono collusi con la Mafia, ma tanto sarà sempre così”, Pif rappresenta quella generazione che invece sente ancora il bisogno di scendere in piazza, che vuole protestare, che sente la responsabilità di raccontare a chi non c’era, che pensa con orrore a mandare il proprio figlio in una scuola intitolata a Giulio Andreotti e non a Calogero Zucchetto, poliziotto assassinato dalla mafia che con la sua vespa andava alla ricerca dei latitanti per le strade di Palermo.
Dalla “fuga del gas” che si è rivelata essere la strage di via D’Amelio, il regista siciliano non ha mai smesso di parlare di criminalità organizzata, che fosse difendendo il diritto di Roberto Saviano di mangiare un gelato, salvo per quella “minchiata di gelato” del gelato gusto lilla (come dice ne “ Il Testimone”); ripercorrendo le stragi di Palermo con gli occhi di un bambino in cerca del coraggio per dichiararsi (ne “La mafia uccide solo d’estate”); o ridicolizzando gli italiani che accolgono al grido di “Liberatori!” gli americani a cui avevano dichiarato guerra (nel nuovissimo “In guerra per amore).
Il suo modo di raccontare ci ha dato fiducia in lui. Quando dal pubblico gli chiedono come crede che le cose stiano cambiando quando parliamo di mafia, risponde che anche la criminalità organizzata è colpita dalla crisi e non è più in grado di controllare tutto, ma proprio per questo motivo ora più che mai è il momento di colpirla. Pif si dice stufo del termine “antimafia”: “Non voglio più essere considerato un regista antimafia, tutti dobbiamo esserlo. Voglio che esistano anche i cuochi antimafia e i dottori antimafia. E’ il momento di dare un senso alle nostre parole, è ora che cessiamo di vedere le grandi figure del passato come miti a cui delegare la nostra responsabilità, perché è sbagliato pensare che Paolo Borsellino era Paolo Borsellino, perché forse non avremo il suo stesso talento investigativo, ma potenzialmente tutti possiamo essere Borsellino.”
Applausi, foto, autografi. Torna alla sua bicicletta con lo stesso sorriso semplice e lo sguardo un po’ svampito. Solo una cosa non gli perdoniamo: di essere andato a cena con gli studenti della Cattolica.