//Processo “Trattativa Stato-Mafia”: il punto dopo un anno

Processo “Trattativa Stato-Mafia”: il punto dopo un anno

di Luca Mecca ed Elena Pigatto

5252 pagine. Questa è la mole delle motivazioni della sentenza del processo “Trattativa Stato-Mafia” che la Corte di Assise di Palermo ha depositato il 19 Luglio 2018, nel giorno del ventiseiesimo anniversario della strage di Via D’Amelio. È un numero che può solo dare una vaga idea della complessità del lavoro svolto da magistrati e investigatori, che, dopo cinque lunghi anni di dibattimenti, ha portato a un risultato storico nella lotta contro il crimine organizzato. Questa sentenza, sebbene di primo grado, chiarisce una volta per tutte un punto a lungo discusso: la trattativa Stato-Mafia c’è stata e si è svolta sotto forma di un dialogo sotterraneo tra Istituzioni e organizzazioni mafiose, in particolare Cosa Nostra. Dopo un annoda quando è stata pronunciata la sentenza di primo grado del processo (20 Aprile 2018), cercheremo ora di presentarne i protagonisti e raccontare gli avvenimenti di quegli anni, con un occhio rivolto anche a quanto accadrà in sede di appello.

Le stragi del 92-93

Gli accadimenti che sono oggetto del processo si inseriscono nel contesto di un’Italia che, dalla fine del ‘91 all’inizio del ’94, è stata colpita da veri e propri attacchi frontali da parte di Cosa Nostra. Inizialmente le stragi furono concentrate in Sicilia e volte a colpire magistrati e servitori dello Stato. Parliamo dell’omicidio dell’Onorevole Salvo Lima nel marzo 1992 e delle stragi di Capaci e via d’Amelio nel Maggio e Luglio dello stesso anno. Successivamente la strategia di Cosa Nostra si convertì in attacchi terroristici, volti a seminare il panico anche in continente e, non secondariamente, a colpire il patrimonio artistico nazionale. La prima città a essere colpita fu Firenze, quando nella notte tra il 26 e il 27 Maggio 1993 un’autobomba scoppiò in via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, portando alla morte di cinque persone. La medesima tecnica fu adottata esattamente due mesi dopo in Via Palestro, presso la Galleria d’arte moderna e il Padiglione di arte contemporanea, a Milano, provocando l’uccisione di tre vigili del fuoco, un agente di polizia e un passante. Dopo neanche tre quarti d’ora scoppiò un ordigno a Roma in zona San Giovanni in Laterano e un terzo davanti a San Giorgio in Velabro, sempre a Roma, che fortunatamente non causarono alcuna vittima. A questi se ne aggiungono numerosi altri pianificati, ma che fallirono spesso per questioni di dettagli. Tra di essi ricordiamo l’attentato ai danni del giornalista Maurizio Costanzo nel Maggio del 1993 e quello fuori dallo stadio Olimpico di Roma nell’Ottobre dello stesso anno, che avrebbe provocato la morte di centinaia di Carabinieri e non avvenne a causa di un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescare l’ordigno. 

Il Primo Grado

Tale era il clima che si respirava in Italia negli anni 1992-1993. È facile, dunque, comprendere la delicatezza della materia che hanno dovuto trattare i pubblici ministeri. Nino Di Matteo è stato sicuramente il magistrato maggiormente in vista, avendo istruito le indagini sul processo e avendolo seguito in tutta la sua interezza. Di Matteo, dal 2017 alla Procura Nazionale Antimafia, fu inizialmente affiancato da Antonio Ingroia, il quale, tuttavia, nel 2013 abbandonò la toga per impegnarsi direttamente in politica. Da quel momento Di Matteo venne aiutato dai pubblici ministeri Teresi, Tartaglia e Del Bene, creando un pool efficiente ed affiatato, come dimostra l’eloquente abbraccio tra i quattro successivo alla lettura della sentenza. Sentenza, appunto, che ha visto condannati in primo grado il boss Leoluca Bagarella (28 anni), due ex comandanti del Raggruppamento Operativo Speciale (Ros) Mario Mori e Antonio Subranni (12 anni a entrambi), l’ex Senatore Marcello Dell’Utri (12 anni), il medico legato a Cosa Nostra Antonino Cinà (12 anni) e l’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno (8 anni). Un’ulteriore condanna è stata pronunciata nei confronti del testimone Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso Vito Ciancimino, condannato a 8 anni per falsa testimonianza. Su questa figura vale la pena aprire una rapida parentesi, dal momento che la sua inaffidabilità è stata spesso utilizzata come strumento per screditare l’operato della magistratura. Per questo motivo le sue dichiarazioni sono state ritenute totalmente inutilizzabili, anche quelle per le quali sono stati successivamente trovati riscontri. Viene, infine, assolto dal reato di falsa testimonianza invece Nicola Mancino, Ministro dell’Interno al tempo dei fatti contestati.  Il reato contestato agli imputati mafiosi è il 338 del codice penale, «Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario», in quanto autori del delitto. I carabinieri e Dell’Utri, invece, sono stati incriminati in applicazione della disciplina della responsabilità penale a titolo di concorso. Secondo la sentenza pronunciata dal Presidente della Corte d’Assise di Palermo Alfredo Montalto, la prima manifestazione della trattativa si ebbe quando i carabinieri del Ros contattarono Vito Ciancimino per comprendere le ragioni degli attacchi frontali di Cosa Nostra nei confronti dello Stato. I magistrati hanno ritenuto che sia fuori dal potere conferito dalla legge il contatto tra rappresentanti delle Istituzioni statuali con soggetti che rappresentano l’intera organizzazione mafiosa.

L’appello

Oggi ci chiediamo dunque quale sarà il seguito della vicenda dopo la storica sentenza di primo grado. Tutti gli imputati condannati in primo grado hanno presentato ricorso; ancora non è nota la data precisa della prima udienza d’appello, ma l’inizio del procedimento è previsto tra aprile e maggio. È invece già stato identificato il giudice che in tale occasione presiederà la Corte d’Assise d’appello, Angelo Pellino, con Vittorio Anania come giudice a latere. Pellino è già stato impegnato in processi importanti in passato, come quello sull’omicidio di padre Pino Puglisi o di Peppino Impastato.

Tra le parti civili solamente la Presidenza del Consiglio ha presentato ricorso per contestare l’ammontare del risarcimento (10 milioni di Euro) dovuto ai danni provocati dalla minaccia al corpo politico dello Stato, mentre le altre parti lo hanno ritenuto sufficiente.

Per quanto riguarda invece l’assoluzione dell’ex Senatore Nicola Mancino, né la Procura di Palermo né la Procura generale hanno presentato ricorso, dunque l’assoluzione nei confronti dell’ex ministro degli Interni è diventata definitiva.

Sarà estremamente interessante seguire gli sviluppi di questo delicatissimo processo nei seguenti gradi di giudizio, soprattutto alla luce delle forti reazioni scaturite il giorno successivo alla lettura della sentenza e rinnovatesi dopo la deposizione delle motivazioni. Questo processo, fin dalle proprie origini, ha creato una vera e propria spaccatura. Una parte del mondo giornalistico e accademico ha dall’inizio tacciato le indagini condotte come un’insussistente perdita di tempo e le critiche non sono mancate neanche in seguito alla sentenza di primo grado. Dall’altra parte il processo e i pm che lo hanno condotto hanno goduto anche del forte appoggio di una parte corposa dell’opinione pubblica, che non ha esitato a definire questa sentenza come “storica”. Sicuramente il primo grado di giudizio ha dimostrato che le indagini fossero doverose e necessarie. Ora non resta che attendere con forte interesse il processo di appello, per avere un quadro più chiaro di quegli anni così centrali nella storia della Repubblica Italiana.