In morte di Matteo Messina Denaro
È iniziato il mio calvario, e a 31 anni, e con la coscienza pulita, non è giusto né moralmente né umanamente […]. Spero tanto che Dio mi aiuti […]. Non voglio neanche pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò. Vuol dire che il nostro destino era questo.
Lettera all’amante, 1993
In meno di un anno, la parabola di Matteo Messina Denaro si è chiusa definitivamente. Arrestato il 16 gennaio 2023 a sole ventiquattro ore di distanza dal trentesimo anniversario della cattura del suo padre/padrino d’adozione, la primula rossa è morta otto mesi più tardi nell’ospedale di San Salvatore dell’Aquila, città in cui trascorse, altresì, la propria, brevissima, carcerazione in regime di 41-bis.
Ironia della sorte, il celebre taumaturgo a cui l’ospedale abruzzese deve il nome, e grazie al quale innumerevoli ammalati hanno trovato conforto, non è servito ad attenuare le sofferenze del noto boss di Castelvetrano.
Denaro, infatti, cognome curioso per un mafioso che ha fatto dei soldi l’architrave del suo potere criminale, ha vissuto notti d’interminabile agonia nel letto di sua ultima permanenza. Nonostante ciò, lo Stato ha scelto il carcere dell’Aquila proprio per la presenza di una sezione specializzata nella cura di pazienti oncologici, cosicché anche uno dei killer più giovani della Cosa, il quale vantava crimini di sangue a meno di vent’anni compiuti, potesse beneficiare di tutte le cure necessarie alla sua eventuale riabilitazione.
Tuttavia, la malattia non ha decretato solamente la fine biologica di Matteo Messina Denaro, ma ha anche consentito, seppur con trent’anni di ritardo, di calare il sipario sul primo atto della sua storia criminale. In particolare, se è pur vero che da un lato la morte de l’ultimo padrino rappresenta la fine di una stagione fondamentale per la Cosa, al contempo, dall’altro lato, la delusione legata alla sua lunga attesa si somma alla frustrazione scaturente dalla nuova sfida per la magistratura: trovare i fiancheggiatori che hanno rinviato l’inevitabile.
In effetti, non esiste boss di spessore che non sia morto in carcere, ma una latitanza eccessiva presta il fianco all’aura d’invincibilità che certa parte criminale costruisce intorno alla propria figura. Fu Renato Cortese a raccontare l’entusiasmo provato con i suoi colleghi nel vedere i cittadini palermitani correre di fronte alla sede della squadra mobile per festeggiare, l’11 aprile 2006, la fine della latitanza di Bernardo Provenzano. Quest’ultimo, sopravvissuto insieme a Messina Denaro alla stagione stragista degli anni ’80 e ’90, rimase, per quasi mezzo secolo, uccel di bosco, tanto che il primo processo promosso (in contumacia) nei suoi confronti fu istruito, 60 anni fa, dal giudice Cesare Terranova.1
Tutto ciò, però, non consente di obliterare i lunghi anni di canzonature e sfottò subiti dai criminali e da altrettanti concittadini sconfortati e sfiduciati dall’incapacità delle Forze dell’ordine di catturare Provenzano.
Ad ogni modo, come si accennava, il cancro al colon di cui l’ultimo boss stragista era affetto da tempo ha rappresentato per gli inquirenti una fondamentale svolta nelle ricerche. Più nello specifico, nel corso degli ultimi mesi del 2022 le indagini della Procura di Palermo si sono concentrate su un certo Andrea Bonafede. Quest’ultimo, geometra di Campobello di Mazara, era strettamente legato a Matteo Messina Denaro. Non a caso, i Bonafede erano ritenuti dai magistrati la famiglia che, nell’assenza del legittimo boss, ricercato dal 1993, esercitava, sotto forma di reggenza, il potere mafioso a Castelvetrano.
Messina Denaro, financo dopo trent’anni di latitanza, era ancora al vertice delle liste di criminali maggiormente ricercati in Italia e nel mondo. Peraltro, non era attenzionato solamente dalle autorità, ma, per certi versi, dalla mafia stessa. Infatti, persino Riina, dal carcere, più e più volte si è interrogato sulla sua fine. Dopo il 1993, ultimo sopravvissuto alla sfida frontale dei corleonesi allo Stato, nessuno lo aveva più visto. Salvo le informazioni fornite dal pentito Sinacori, sebbene i numerosi arresti e i sequestri milionari, attorno a Matteo Messina Denaro solo voci nel vento, storie fantasiose e immaginose disseminate dai suoi sodali in modo da costruire un mantello di mistero ed eroismo.
Oltretutto, la bestia di Cosa Nostra continuava a rammaricarsi dal 41-bis della scelta da parte del suo figlioccio d’adozione – Francesco Messina Denaro aveva designato Riina quale precettore del figlio Matteo – d’interrompere la guerra allo Stato per perseguire nuovi affari economici.
Invero, risiede esattamente in questo la grande lungimiranza di Messina Denaro, il quale fu capace di restituire alla Cosa una ritrovata oscurità dopo un ventennio trascorso sotto i riflettori. L’obiettivo è stato raggiunto tornando allo statuto originario: la forza intimidatrice, ma soprattutto risolutrice, della lupara deve essere funzionalizzata esclusivamente alla conservazione degli assets e, soprattutto, esercitata solo laddove la Cosaè radicata da secoli, escludendo le nuove terre d’affari dai fatti di sangue più eclatanti. Questa linea, suggerita già a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 da Provenzano, si pone in netta contrapposizione con la strategia di Riina culminata, appunto, con gli attentati nel continente del 1993.
Dunque, per il bene della Cosa era necessario mutuare l’atteggiamento gangsteristico e terroristico di Riina nella linea imprenditoriale di Provenzano, perfettamente incarnata da Matteo Messina Denaro quale mafioso del dialogo e della pacificazione. Non a caso, se è vero che l’organizzazione non cessa di esistere con la cattura di Messina Denaro, dal momento che la Cupola palermitana saprà riorganizzarsi, difficilmente il carisma del boss della Provincia trapanese sarà eguagliabile. Egli fu l’unico in grado di replicare la grande capacità mediatrice di Michele Greco, non a caso ricordato, tra gli ambienti criminali, come ‘u Papa.
Diabolik fu, quindi, la medicina ad una politica suicida già paventata dall’opposizione di Riina a partire dalla scellerata scelta degli attentati del 1993. Lo stesso Giovanni Falcone, spostatosi a Roma per seguire Martelli al ministero di Grazia e Giustizia, fu ucciso sull’autostrada A29 all’uscita per Capaci quando, di ritorno dall’aeroporto che oggi porta il suo nome, stava raggiungendo Palermo per festeggiare l’imminente nomina al vertice della superprocura. Non sarebbe stato più semplice agire mentre Messina Denaro e Graviano si trovavano nella Capitale per pedinare il magistrato tanto inviso alle cosche?
Il motivo dell’attesa è legato esclusivamente alla risonanza, ancora più evidente, che l’attentato avrebbe avuto fuori dalla Sicilia? Questo resta il primo dei tanti arcana mafiosi che Messina Denaro non ha voluto svelare. Se ne possono prendere in considerazione degli altri, i quali, insieme, offrono un fondamentale spaccato della storia d’Italia e un inquietante esempio dell’efferatezza di un uomo, cosiddetto, d’onore.
Ad esempio, perché poco prima della Strage di via D’Amelio – il 15 luglio 1992 – Vincenzo Milazzo venne torturato e, in seguito, freddato con un colpo di pistola da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro per poi essere sotterrato in campagna insieme alla sua convivente ventitreenne e incinta, strangolata a sole ventiquattrore di distanza dalla dipartita del boss di Alcamo?
Oppure, chi ha suggerito al vertice della Commissione provinciale palermitana gli obiettivi di rilevanza culturale delle stragi del 1993? Può reggere la tesi per cui furono scelti casualmente, passeggiando per i vicoli dei tre capoluoghi?
Coloro che hanno tentato di svelare qualcosa hanno pagato a caro prezzo la propria ignominia. L’infamia, infatti, secondo Riina esige il sangue di tutti i parenti fino alla ventesima generazione. Questo fu il caso di Santino di Matteo, boss che per le proprie rivelazioni in merito alla Strage di Capaci venne punito con il rapimento e la successiva uccisione del figlio, Giuseppe Di Matteo. Anche in questo caso è coinvolto Matteo Messina Denaro insieme a Leoluca Bagarella, i Graviano e Giovanni Brusca. Fu proprio quest’ultimo a suggerire l’iniziale sequestro del ragazzino di dodici anni durante una riunione in una cava di calce a Misilmeri, posticipando così la sua uccisione già sostenuta, dagli altri, fin dal primo momento.
I rapitori avvicinarono il piccolo Di Matteo nel maneggio che frequentava. Si finsero degli agenti della DIA. Nello specifico, il pentito Gaspare Spatuzza racconta che il ragazzo venne persuaso a seguirli dietro alla motivazione che lo stessero portando da suo padre, allora sotto protezione per le sue dichiarazioni.
Per circa un anno e mezzo venne spostato da un tugurio all’altro. Prima in un magazzino, poi in una rimessa per la frutta, quindi in una specie di sottoscala senza neppure lo spazio per il materasso. Era nutrito alla maniera del bestiame, persino con scarti ed alimenti freddi. Mai una doccia né un taglio di capelli. Nessuno si interessò a lui se non quando cominciarono a girare voci all’interno della Cosa circa le modalità della sua prigionia. I picciotti cominciarono, infatti, a commentare e criticare le condizioni in cui versava.
Dopo tre anni dal sequestro, Giovanni Brusca su ordine di Messina Denaro, i Graviano e Bagarella disse al fratello Enzo di liberarsi del cagnuleddu. Vincenzo Chiodo in udienza nel ’98 racconta che lui, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo furono gli esecutori materiali. Entrati nella stanza dove il piccolo Di Matteo era tenuto prigioniero, Chiodo chiese al ragazzo di mettersi in un angolo. Pare che Di Matteo non mostrò neppure resistenza, probabilmente incapace di capire cosa stesse accadendo dopo venticinque mesi in mano ai suoi carcerieri. Una volta sopra di lui, Busca e Monticciolo gli serrarono gambe e braccia, mentre Chiodo lo strangolò con una corda. Quest’ultimo ricorda di aver visto solamente gli occhi del ragazzo girare. Nel frattempo, veniva svuotato un fusto di acido in una vasca. Fu Chiodo a riversarci all’interno il corpo esanime del ragazzino. Dopo una pausa, decise di tornare nella stanza. Il puzzo era tremendo, ma rimase quel tanto necessario a vedere riemergere un braccio o forse una parte della schiena. Dopo l’omicidio? Poi siamo andati tutti a dormire.
In questo modo, Vincenzo Chiodo descrisse l’omicidio di Giuseppe Di Matteo da parte dell’onorata famiglia di cui era parte. Quella stessa comunità di uomini, per tradizione valorosi e coraggiosi, che non toccano donne e bambini, ma si preoccupano solamente di punire gli uomini che sgarrano, violando il codice d’onore e il giuramento professato all’atto di adesione.
Esempi dell’efferatezza di Denaro a volte si intrecciano con dei misteri irrisolti. È questo il caso del tentato omicidio del questore Rino Germanà. Quest’ultimo, già alla guida della mobile di Mazara del Vallo, il 14 settembre 1992 venne raggiunto da un commando composto da Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. Pare che quest’ultimo non sparò nessun colpo, motivo col quale viene, peraltro, giustificato il fallimento dell’attentato. Il boss, infatti, credeva di avere una certa esperienza nell’uso delle armi da fuoco, sebbene venga da chiedersi quale maturità si possa conseguire nello sparare a persone inconsapevoli del proprio destino.
Ad ogni modo, per tre volte i sicari si allontanarono e tornarono indietro per concludere il lavoro. Germanà, infatti, la prima volta che venne raggiunto nella sua auto dai colpi di kalashnikov e di fucile rispose d’istinto al fuoco, comportando l’allontanamento dei tre. Questi ultimi tornarono poco dopo quando il commissario si era rifugiato sulla spiaggia vicina. Infine, l’azione si interruppe solo una volta che il dirigente di polizia si gettò in acqua. I tre decisero di allontanarsi definitivamente, lasciando, però, un grande interrogativo: perché Riina diede l’ordine di uccidere Germanà? Certamente il capo dei capi rimase deluso del fallimento dell’azione. Nel 2013, infatti, intercettato dal carcere, rimuginava ancora della cosa comparando l’inettitudine dei suoi tre uomini con la sua capacità di far saltare i palazzi come furmicule.
Peraltro, era sempre Riina a sostenere dal carcere che Messina Denaro avesse trovato rifugio all’estero. In realtà, difficilmente un boss si allontana dal proprio territorio, dal momento che, così facendo, non riuscirebbe a mantenere il controllo e minerebbero la propria reputazione di fronte ai membri dell’organizzazione. Detto altrimenti, il territorio per un mafioso è tutto. Eppure, è proprio la casa di Messina Denaro ad aver rappresentato una svolta nella sua cattura.
Con l’intento d’installare una nuova microspia nell’abitazione dove risiede la sorella, infatti, i carabinieri del ROS hanno scovato un fondamentale pizzino dentro la gamba d’acciaio di una sedia. Quel pezzo di carta ha costituito la chiave di volta dell’intero caso. In effetti, Rosalia Messina Denaro, primogenita del capostipite Francesco, al suo interno vi aveva ricostruito il percorso clinico di un uomo affetto da tumore al colon. Fu il Procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido a suggerire che la persona a cui il pizzino facesse riferimento avrebbe potuto essere Matteo Messina Denaro.
Era necessario, dunque, incrociare date ed operazioni indicate nel pizzino con i contenuti della banca dati sui ricoveri e le dimissioni conservata dal Ministero della Salute. Fu, quindi, a dicembre 2022 che, una volta ristretto il cerchio intorno alle cliniche siciliane, spuntò il nome del geometra di Campobello di Mazara. Nipote di Leonardo, strettamente legato ai Messina Denaro, Andrea Bonafede sembrava perfettamente in salute e i suoi movimenti non combaciavano con visite e cicli di chemioterapia.
Tuttavia, egli aveva in programma un appuntamento, lunedì 16 gennaio 2023, presso la clinica La Maddalenadi Palermo. Si trattava dell’ennesimo ciclo chemioterapico. Si decise allora di cintare la struttura e le strade circostanti attraverso l’impiego di decine di agenti. Nessuno conosceva il volto di Matteo Messina Denaro, risalendo l’ultima foto segnaletica agli anni ’80. Ad ogni modo, le forze dell’ordine si posizionarono dentro e fuori la struttura e da remoto i carabinieri del ROS controllavano le telecamere di videosorveglianza.
Un uomo con occhiali scuri, giubbotto di montone marrone, cappello coordinato ed orologio di lusso – da cui si ipotizza facilmente la futilità di mantenere un basso profilo – venne catturato da un fotogramma all’accettazione. Da quel momento svanì per almeno quaranta minuti. Saranno solo gli agenti Pietra e Turco – i loro nomi di battaglia – a ritrovarlo seduto al bancone del bar della struttura: è lei Matteo Messina Denaro? – gli domandarono – Si, sono io Matteo Messina Denaro.
Non è del tutto indifferente rimarcare le ultime parole pronunciate da un boss prima dell’arresto. Si racconta spesso che i capimafia tendano a pensare e ripensare a cosa dire nel momento della loro cattura. Lo scopo è naturalmente quello di offrire ai propri subalterni una storia che, una volta condita con la dovuta eroicità e tratti epici, possa restituire l’ultima immagine del leader che si consegna allo Stato e dà l’esempio di onorabilità, negando ogni forma di collaborazione.
Non a caso, Matteo Messina Denaro ha voluto sottolineare fin da subito ai procuratori palermitani Maurizio De Lucia e Paolo Guido che non avrebbe mai collaborato con la giustizia. Per certi versi, lo stesso concetto è stato riaffermato durante gli interrogatori all’Aquila quando Messina Denaro, prendendosi gioco della magistratura, ha più volte rimarcato che senza la propria malattia sarebbe ancora un uomo libero. Ovviamente, tutto ciò mostra una classica postura narcisista la quale, tuttavia, tradisce una certa insofferenza dato che le Forze dell’ordine, dopo tre decenni, si sono mostrate ancora ostinate nel perseguire l’obiettivo del suo arresto.
Ugualmente celebre, e al contrario spontanea, è stata la reazione dei palermitani. Fuori dalla clinica i presenti hanno reagito con applausi e ringraziamenti, i quali hanno sugellato la caduta di quel manto d’invincibilità che per troppo tempo aveva avvolto la figura di Messina Denaro.
Attraverso questo arresto, infatti, lo Stato è riuscito a manifestare la propria presenza sul territorio, impedendo alle organizzazioni criminali di avanzare laddove, almeno in apparenza, le istituzioni democratiche indietreggiavano. Peraltro, le mafie mettono in atto le proprie strategie in modo sempre più subdolo sviluppando, soprattutto di recente, una nuova stagione di controllo del territorio.
Nello specifico, piuttosto che limitarsi ad agire manu militari imponendo con la forza dell’intimidazione e della violenza il proprio potere, hanno iniziato a presentarsi alla cittadinanza come possibile alternativa ad uno Stato assente. Lo scopo è quello di creare un welfare mafioso che prenda forma tramite aiuti alimentari, prestiti economici o lavoro ai giovani inoccupati delle famiglie di periferia.
Certamente, ogni concessione prevede una restituzione, ma ciò non esclude che, laddove lo Stato appaia immobile, anche un movimento scomposto delle mafie sia letto, seppur paternalisticamente, come il supporto di persone che hanno cura della propria gente e del proprio quartiere. In questo modo, anche allorquando i cittadini non aderiscano all’organizzazione, naturalmente si pongono in netta ostilità nei confronti di uno Stato – scriveva Matteo Messina Denaro2 – prima piemontese e poi romano.
È da questo atteggiamento che nasce una cultura più pericolosa della mafia stessa, configurabile nel bisogno di mafia. Infatti, quando si cerca la mafia, indirettamente la si rinforza e, soprattutto, la si arricchisce. Una mafia più ricca è una mafia che esercita maggiore controllo sulle nomine professionali, sulle gare di appalto o sui permessi commerciali.
È il fenomeno della cosiddetta borghesia mafiosa. Questa formula, riproposta di recente dal Procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, si riferisce a quel manipolo di professionisti o colletti bianchi che non necessariamente sono parte della famiglia – di sangue o criminale – ma certamente condividono una incondizionata adesione ai valori della Cosa, molto probabilmente in quanto attratti dalla possibilità di farsi rispettare, laddove l’espressione più corretta dovrebbe essere temere e, peraltro, andrebbe rivolta non già al professionista, ma al mafioso alle cui dipendenze il primo si pone.
In passato i colletti bianchi erano capimafia e tutto questo era strettamente legato alla natura delle organizzazioni mafiose quali mezzo al fine. In altre parole, esse erano utilizzate dai loro vertici allo scopo di perseguire intenti di natura politica o professionale. Tuttavia, il complesso di valori e principi morali che è stato costruito attorno alle organizzazioni è divenuto essenziale per la loro sopravvivenza. Senza, infatti, la mafia cadrebbe sotto alla contraddizione di società moralissima e solidarissima che, però, sfrutta e logora i picciottidi cui si serve, a vantaggio dei pochi capi.
A titolo esemplificativo, il pericolo di questa spirale è stato toccato con mano da un mafioso di spicco, Antonino Giuffré. Quest’ultimo, infatti, oggi collaboratore di giustizia, ma finché in attività vicinissimo al reggente dellaCupola palermitana Bernardo Provenzano, ebbe prova della propria gestione del territorio a seguito di un incidente stradale subito dal figlio. La moglie gli telefonò informandolo che il primogenito stava per essere portato da un’ambulanza presso l’ospedale di Termini Imerese, territorio di cui Giuffré, all’epoca latitante, era considerato capomafia. La reazione fu delle più disperate. Il figlio, in attesa di un’operazione, rischiava d’incontrare sulla sua strada un chirurgo particolare: non puoi portarlo lì picchi c’è un cane ca c’u misi io! La moglie poco dopo gli confermò che il cane non era di turno e il figlio poté beneficiare delle cure di un medico scelto, per concorso, dal SSN.
Antonino Giuffré non è del tutto indifferente nella nostra storia. In qualità di collaboratore di giustizia, infatti, sostenne che la lunga latitanza di Matteo Messina Denaro fosse legata all’archivio segreto di Riina, cioè i documenti portati via dal covo di via Bernini dopo l’arresto del capo dei capi e conservati personalmente da Messina Denaro. Dunque, si delinea l’ennesimo interrogativo a cui gli inquirenti dovranno rispondere in questo secondo atto della storia criminale del boss: queste informazioni possono aver rappresentato un’assicurazione per la sua libertà?
D’altra parte, gli interrogativi emersi non hanno solo una natura investigativa. La perquisizione del covo di Messina Denaro, in via Cb 31, ad esempio, suggerisce riflessioni di altra specie. Libri, DvD e quadri conservati mostrano un uomo dalle passioni erudite. Si scoprono le fonti delle numerose citazioni letterarie e cinematografiche presenti nei suoi pizzini, nonché l’origine dei molti nomi in codice dati ai destinatari dei suoi messaggi e rubati dai protagonisti di alcune delle più celebri storie contenute in letteratura.
Tanti gli scritti presenti, da Nietzsche a Vargas Llosa, passando per volumi sul fascismo e persino la biografia della magistrata milanese Ilda Bocassini. Soffermarsi su questi aspetti non è del tutto deleterio. Il fatto che un uomo come Matteo Messina Denaro abbia letto autori di questa levatura e abbia avuto la carriera criminale fin qui in parte accennata, aiuta a riconoscere il fondamentale binomio tra l’essere e l’apparire onesti.
Messina Denaro coltivava un vero e proprio culto della propria immagine – il quadro alla Andy Warhol ritrovato nella sua casa d’infanzia lo conferma – tanto che, seppur nell’ombra, non ha mai mancato un evento rilevante. Infatti, non importa il maggiore o minore grado di mafiosità che lo caratterizzasse, u’ Siccu – come era chiamato in forza della sua fisicità – ha sempre saputo che la peggior nomea di un mafioso è quella del boss che abbandona il territorio lasciando a se stessi i propri sottoposti.
A tal proposito, fu Paolo Borsellino a mostrare una fondamentale differenza tra gli uomini d’onore e gli uomini onesti: l’onestà non va solamente decantata, ma anche perseguita (bisogna apparire onesti). Alla mafia hanno sempre fatto comodo i proclami, tuttavia ciò che essa teme davvero sono i fatti, attribuibili a pochissime menti, per così dire, riformatrici.
Si accennava alla presenza di pizzini ricchi di citazioni letterarie ed espressioni, peraltro, più ideologiche che affaristiche. Effettivamente quella di Matteo Messina Denaro è una storia anche e, soprattutto, di messaggi, scritti di proprio pugno o battuti al computer e passati di mano in mano, da parte di fidatissimi, fino ai loro destinatari.
I pizzini sono uno strumento certamente arcaico, ma di fondamentale utilità per il perseguimento del controllo. Possono essere anche uno strumento d’intimidazione, nonché la giustificazione per delitti di sangue. A tal proposito, come dimenticare la morte di Giuseppe Montalto, ucciso su mandato di Matteo Messina Denaro per fare un regalo ad alcuni boss detenuti all’Ucciardone. Montalto, infatti, fu assassinato il 23 dicembre 1995 perché colpevole di aver sequestrato in carcere un biglietto nascosto dai boss siciliani Mariano Agate, Raffaele Ganci e Giuseppe Graviano. In fondo, la mafia non uccide mai per il piacere di farlo. Bisogna mandare dei segnali. Talvolta ci si arma di carta e penna, talaltre di lupara.
Del resto, come biasimare un uomo così saldo nei suoi principi. Secondo il figlioccio di Riina, infatti, c’è gente che mi ha aiutato, ci sono persone che hanno cose mie, ma io non ho mai infamato e morirò senza infamare nessuno, questo è Messina Denaro. Pronuncerà queste parole di fronte al GIP di Palermo Alfredo Montalto. Tenendo fede alla sua promessa, morirà quattro mesi più tardi in compagnia della sua onestà.
Ancora grazie a chi ci ha consentito di vedere il Tramonto.3
Essere incriminati di mafiosità […] lo ritengo un onore. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana, siamo diventati un’etnia da cancellare. Eppure, siamo figli di questa terra di Sicilia. […] Hanno costruito una grande bugia per il popolo, noi il male loro il bene. […] Questo siamo ne sono convinto, tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita.
Lettera a Patrizia e Francesco, 15 dicembre 2013
Di Jacopo Rocca
NOTE
1 Il processo svoltosi a Bari (1969) contro la cosiddetta Anonima Assassini (la cosca di Corleone che con la guerra di mafia del 1962-1963 portò alla caduta di Michele Navarra per mano dei suoi giovanissimi sodali Riina, Provenzano e Liggio) si concluse con decine di assoluzioni, pene irrisorie e la constatazione, contenuta nelle motivazioni della sentenza, per cui il legame tra mafia e associazione per delinquere non potesse avere apprezzabili conseguenze processuali.
2 V. Lettera a Patrizia e Francesco, 15 dicembre 2013.
3 Nome in codice dell’operazione relativa alla cattura di Matteo Messina Denaro