Il traffico illegale d’opere d’arte è un’attività illecita, su cui la criminalità organizzata ha saputo specializzarsi nel corso degli anni. Un business criminale, che non balza spesso agli onori della cronaca, ma che conta sugli affari della mafia tanto quanto il commercio d’armi o stupefacenti.
di Vittorio Cugnin
Era la notte tra il 17 ed il 18 ottobre 1969. Una pioggia battente rinfrescava i vicoli del quartiere Kalsa, insieme di viuzze che separano il centro storico di Palermo dalla zona portuale. L’estate, col suo frizzante andirivieni di palermitani e turisti, era ormai conclusa e lasciava spazio al tepore della stagione autunnale. Il silenzio, interrotto dagli scrosci isolati della pioggia, avvolgeva la piazzetta, su cui si staglia, ancor oggi, la facciata gotica della basilica di San Francesco d’Assisi. Alle spalle del santuario, sorge, invece, l’oratorio barocco di San Lorenzo, per il quale Michelangelo Merisi dipinse la straordinaria pala d’altare de la Natività nel 1600.
Devoti, laici e cristiani, rimanevano incantati alla vista della tela, ritenuta una delle più prodigiose manifestazioni artistiche del Caravaggio. Tanta era la devozione, quanto carente l’attenzione rivolta alla sicurezza di un’opera così eccezionale. Proprio i controlli lascivi consentirono ad un gruppo di balordi di introdursi nell’oratorio e sottrarre la pala del Merisi, senza che alcuno si accorgesse del furto sino al mattino seguente.
A cinquantun anni di distanza, nulla si conosce sulle sorti del capolavoro caravaggesco. Alcuni ritengono che l’opera sia andata distrutta, a causa dei danni irreparabili provocati dalla pioggia di quella notte del ’69; altri, invece, hanno dichiarato di aver visto la tela in ottime condizioni ed aver assistito alla vendita del dipinto ad acquirenti stranieri. Le versioni, seppur discordanti, condividono un unico elemento probatorio: la partecipazione di Cosa Nostra alle vicende che hanno riguardato l’ U’Caravaggio.
Da quanto emerso dalle indagini della Commissione Antimafia, è possibile considerare la sottrazione del dipinto come il caso principe, che ha dato avvio al filone del traffico illegale di opere d’arte, su cui la criminalità organizzata ha saputo abilmente specializzarsi nel corso degli anni.
Il peso considerevole del business dell’arte trafugata sul portafogli della mafia è testimoniato da un pizzino, attribuito a Matteo Messina Denaro: “con il traffico d’opere d’arte, ci manteniamo la famiglia”. Leggasi: il giro d’affari, generato dal traffico illecito di beni artistici, è da considerarsi un core business dell’organizzazione, al pari del commercio d’armi o stupefacenti.
A mente lucida, parrebbe un’affermazione ardita. È davvero possibile che le mafie preferiscano un Van Gogh ad un carico di cocaina? La risposta è sì.
Andando per ordine, è opportuno, innanzitutto, misurare l’importanza del settore dell’arte sull’economia globale. I ricavi di vendita, registrati dall’industria, sono risultati pari a circa $ 70 miliardi nel solo 2018, come riportato dalla società Arts Economics. Il tasso di crescita del fatturato è stato pari al +6% rispetto all’anno precedente ed il valore del mercato è più che raddoppiato negli ultimi venticinque anni.
L’andamento positivo dei risultati di settore non implica che le organizzazioni criminali abbiano contribuito all’ascesa dei valori, in quanto la mafia opera prettamente su mercati clandestini, i cui numeri non sono inglobati negli indici presentati.
La prosperità di un’attività regolare, tuttavia, produce indirettamente ricchezza nei mercati paralleli. Investitori, che passeggiano sul confine tra legalità ed illegalità, sono attratti da business leciti remunerativi, essendo abili nel traslare, tramite l’imposizione della legge criminale, gli effetti positivi dei trend di crescita sui mercati illeciti. Esempi di tali meccanismi sono evidenti, se si considerano le infiltrazioni della criminalità in attività apparentemente legali (ma dirette in maniera illegale), quali la gestione dei rifiuti, il traffico di greggio raffinato o il gioco d’azzardo.
Come illustrato dalla Rivista di Studi e Ricerche sulla Criminalità Organizzata dell’Università Statale di Milano, ulteriori fattori, che favoriscono l’entrata di organizzazioni mafiose nel business dell’arte, sono l’assenza di controlli sull’origine di beni di dubbia provenienza, la facilità di attraversamento delle frontiere in compagnia di merce trafugata o contraffatta e l’economicità delle attività di sottrazione delle opere, site solitamente in luoghi poco protetti, come musei di piccole dimensioni o case d’arte private.
La componente persuasiva più rilevante è riconducibile, però, alle dissonanze, presenti nel quadro normativo nazionale, relativamente al contrasto del fenomeno criminale in esame. Quando si discute di fattispecie, quali lo scavo illegale di reperti archeologici, il furto, la contraffazione e l’esportazione di opere d’arte, è necessario muoversi parallelamente tra quanto previsto dal Codice penale e dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Godere di due Codici giuridici, che dispongono sulla medesima materia, è garanzia di una copertura legale pressocché assoluta delle fattispecie, tuttavia l’assenza di unicità comporta, spesso, sovrapposizioni normative, che impediscono di comminare pene coerenti ai reati commessi.
Al fine di risolvere tale bega giudiziaria, è stato promosso, nel 2018, un disegno di legge (ddl 882), mirato ad assicurare l’uniformità del corpus normativo sugli illeciti perpetuati contro il patrimonio culturale ed artistico. In seguito all’approvazione della Camera dei Depurati, in data 18/10/2018, si è ancora in attesa del responso del Senato della Repubblica.
Mentre la politica incespica tra i principi della giurisprudenza, le organizzazioni criminali operano indisturbate. Tanto indisturbate da aver brevettato un corso d’azione standardizzato, il cui impiego consente di generare massimi rendimenti dal traffico illegale di beni artistici.
L’organizzazione recluta, in primis, soggetti, specializzati nella sottrazione di opere d’arte, i cd. tombaroli. I “ladri di tombe”, abili nell’introdursi in luoghi stretti ed angusti per rubare reperti preziosi, sono parte della bassa manovalanza mafiosa. Dopo aver concluso il colpo, i tombaroli consegnano la merce trafugata ai membri della famiglia criminale, i quali avviano le negoziazioni con intermediari, nazionali ed internazionali, che individueranno, a loro volta, i migliori clienti, a cui vendere i capolavori rubati.
Dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, emerge che il sistema sopradescritto rappresenti il modus operandi, prediletto dalla famiglia Messina Denaro.
Nel 2017, le indagini degli inquirenti hanno condotto al sequestro del patrimonio di Gianfranco Becchina, considerato l’intermediario del clan di Castelvetrano nel mercato svizzero dell’arte. Come riportato da Rino Giacalone nell’inchiesta giornalistica Il collezionista, il Becchina si è sempre definito onesto mecenate, non collegato in alcun modo alle attività illecite dell’organizzazione del compaesano Matteo. Da quanto, però, rivelato da Giuseppe Grigoli, ex proprietario dei supermercati Despar nonché prestanome della famiglia Messina Denaro, il Becchina era solito consegnare borsoni colmi di banconote allo stesso Grigoli, che avrebbe dovuto, poi, recapitare il denaro ai membri del clan. Ingenti quantitativi di liquidità, frutto, secondo gli inquirenti, del traffico illegale di reperti d’arte. Nel 2018, le testimonianze dei collaboratori di giustizia, tuttavia, non sono state considerate efficaci, a livello probatorio, dal Gup di Palermo, che ha archiviato il procedimento penale, per associazione mafiosa, pendente sul Becchina.
La criminalità organizzata è anche acquirente di opere d’arte trafugate. Investire in beni artistici consente alle mafie di riciclare i proventi di altre attività illecite. Tele e sculture sono i diamanti del nuovo millennio, i classici beni rifugio delle mafie, ovvero risorse che non subiscono svalutazioni nel lungo periodo e che possono esser trasformate in liquidità in tempi brevi.
I capolavori rubati sono, altresì, preziosa contropartita nella regolazione delle corresponsioni tra membri di organizzazioni criminali differenti. I maggiori controlli sulla circolazione dei capitali illegali hanno obbligato la criminalità ad individuare metodi di pagamento, alternativi al denaro, per concludere affari con clan alleati, geograficamente distanti.
La sottrazione di un’opera d’arte, pubblicamente nota, può, infine, veicolare un’offensiva delle organizzazioni criminali nei confronti dello Stato. Nel 1991, la Mandibola di Sant’Antonio, sottratta dalla Mala del Brenta, era stata offerta in cambio della scarcerazione del cugino di Felice Maniero. Oppure, l’attentato di via dei Georgofili, perpetrato da Cosa Nostra nei pressi della Galleria degli Uffizi, è stato l’espediente, grazie al quale la Cupola ha fatto pressioni sullo Stato per ottenere un alleggerimento delle misure di detenzione, previste dal regime di 41-bis, ed un allentamento delle indagini sul contrasto alla mafia, posteriori al Maxiprocesso di Palermo.
La notte tra il 17 ed il 18 ottobre è ormai prossima. L’avvicinamento a tale triste ricorrenza dovrebbe porre interrogativi sull’efficacia delle misure disposte al contrasto di un business criminale, che non balza spesso agli onori della cronaca, ma che conta sugli affari della criminalità tanto quanto le attività illecite più celebrate. Finché soluzioni più incisive non saranno promosse ed attuate, le organizzazioni criminali continueranno a prosperare, depredando il nostro patrimonio artistico e culturale.
La pioggia continua a battere, incessante, in via Immacolatella, oggi come quella notte di cinquantun anni fa.