//Mafia Capitale non esiste. Ne è rimasta soltanto l’eco

Mafia Capitale non esiste. Ne è rimasta soltanto l’eco

di Vittorio Cugnin

Ad un anno circa dalla sentenza di primo grado con cui si è concluso (in parte) il maxiprocesso a “Mafia Capitale”, ripercorriamo le tappe salienti dell’operazione “Mondo di Mezzo”

Ore 13 di un caldo pomeriggio romano di metà luglio. Mafia Capitale esiste.
L’aula bunker del carcere di Rebibbia si anima dopo lunghi ed interminabili istanti di attesa. Tutti in piedi, imputati presenti o in videoconferenza, avvocati, pubblici ministeri, giornalisti. Pronti ad ascoltare, a più di un anno e mezzo dall’inizio del processo, la lettura della sentenza di primo grado su “Mafia Capitale”. Seguono quaranta minuti di silenzio, di quel silenzio quasi assordante, durante cui si percepisce unicamente la flebile vibrazione della voce del magistrato incaricato di comunicare a Roma, all’Italia ed al mondo, il verdetto prodotto in camera di consiglio.

Ore 13.41 di un caldo pomeriggio romano di metà luglio. Mafia Capitale non esiste.
Favorito dalla profondità spaziale considerevole dell’aula bunker, una sorta di effetto eco si propaga dalla Corte ai presenti. Un eco, però, diverso dal fenomeno tipico delle immense valli montuose dell’Italia alpina, più penetrante, che non si limita alla mera percezione uditiva ma che investe anche gli altri elementi della sfera sensoriale. Ed arriva, con grande impeto, pure al cervello, ove l’eco si tramuta, a contatto con la realtà dei fatti, in presa di coscienza (spesso, purtroppo, differente da quanto ci si aspetti). “Mafia Capitale non esiste”, rimbomba. Ecco l’eco romano. L’eco di Rebibbia.
Sono probabilmente tali, le caratteristiche di questa speciale amplificazione sensoriale, con cui sono entrati in contatto, soprattutto, i tre pm del pool Antimafia – Luca Tescaroli, Giuseppe Cascini e l’aggiunto Paolo Ielo – subito dopo la pronuncia della sentenza; i pubblici ministeri che, con tenacia e diligenza nello svolgere la propria professione, hanno eretto solidi pilastri alla base della contestazione, rivolta alla Corte, secondo cui dovesse essere applicata la disciplina normativa del 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) anche alla Buzzi&Carminati Co. Così non è avvenuto. Difatti, la sentenza, a conclusione di circa 230 udienze precedenti, ha cancellato l’impianto accusatorio della Procura di Roma (“rappresentato”, in aula, dai tre pm del pool), non riconoscendo, dunque, l’associazione a delinquere di stampo mafioso. “Un’amara sconfitta, per noi, ma comunque da rispettare” diranno, in seguito, i tre pm, scuri in volto, ai microfoni dei giornalisti. Si conclude così il processo all’ex Mafia Capitale. Parte prima.
Tale è stato l’epilogo della vicenda. Riavvolgendo il nastro, tentiamo di far maggior chiarezza sulla narrazione delle vicende e, in particolare, cerchiamo di focalizzare l’attenzione su alcuni personaggi chiave che hanno avuto ruoli fondamentali nell’evolversi dell’operazione denominata “Mondo di Mezzo”.

2 dicembre 2014
È questa la data in cui tutto ha avuto inizio. All’alba di una fredda mattina di dicembre, le forze dell’ordine arrestano trentasette persone (di cui ventotto poi trasferite in carcere e nove ai domiciliari) e completano perquisizioni in diversi edifici, fulcro della politica romana e non solo, coinvolgendo anche personaggi di spicco di quest’ultima. Il motivo: la presenza di un’associazione a delinquere di sospetto stampo mafioso, operante nella capitale e nel Lazio, che abbia stretto accordi, per lo più, illeciti con esponenti dell’imprenditoria e politica locale, finalizzati al controllo di attività economiche pubbliche e private. Corruzione, estorsione, usura sono alcuni dei reati contestati alla sopra citata associazione. A muovere pedoni ed alfieri all’interno della scacchiera, due personaggi principalmente, ritenuti i creatori della organizzazione: Salvatore Buzzi, fondatore e presidente della cooperativa “29 giugno”, già noto alle forze dell’ordine per una serie di reati di diversa natura (tra cui emerge la condanna a trent’anni per omicidio doloso del pregiudicato Giovanni Gargano nel 1980) e Massimo Carminati, ex terrorista, in gioventù, dei Nar e, poi, con un trascorso tra le file della Banda della Magliana. Un approfondimento de L’Espresso sulla figura di Carminati del 23 luglio 2017 definisce “er Cecato” (così soprannominato nelle realtà criminali romane in seguito alla perdita dell’occhio sinistro durante un conflitto a fuoco con la polizia nel 1981) “delinquente modello”, in onore della vita criminale estremamente movimentata ed, in alcuni casi, avvolta in un nebuloso alone di mistero giudiziario (basti pensare che il “Cecato”, in passato, sia stato chiamato in causa in molti processi da cui, spesso, è uscito assolto per ragioni non ancor oggi chiarissime; come l’assoluzione “per non aver commesso il fatto”, successiva ad un lungo periodo d’indagine, in merito all’accusa di esser stato l’esecutore materiale dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, nel 1979; oppure, la condanna, sì, esperita nei suoi confronti per il furto al caveau della Banca di Roma, avvenuto nella notte tra il 16 ed il 17 luglio 1999, durante il quale Carminati ed altri malviventi svaligiarono 147 cassette di sicurezza, per motivi non del tutto chiariti ma riconducibili ad affari riguardanti i substrati “deviati” della politica; la cui applicazione, però, mai si è concretizzata poiché, una volta divenuta definitiva la sentenza, Carminati ha beneficiato dell’indulto del 2010).
Ritornando all’indagine Mondo di Mezzo, la Procura, in particolare, ritiene che Buzzi offra al gruppo capitale umano e finanziario, insomma know-how illecito, mentre Carminati faccia valere, soprattutto, il proprio carisma criminale. Ed è anche tale la divisione bicefala, in cui è suddivisa la struttura dell’organizzazione. Una delle “teste”, di carattere prettamente militare, fa capo a Riccardo Brugia, sostenitore ed amico di Carminati nel periodo di condivisone degli ideali di destra estrema (ciò spiega la scelta di Carminati di affidare un ruolo di cospicuo rilievo ad un fedele camerata piuttosto che ad altri individui bramosi di successo in campo criminale); l’altra “testa” di professione, potremmo dire, squisitamente imprenditoriale (gestita da Salvatore Buzzi) si occupa della gestione del denaro da “ripulire”, reinserendolo nell’economia lecita sotto forma di investimenti in attività di vario tipo. Qualora gli investimenti, stabiliti dal gruppo di imprenditori dell’organizzazione, trovino opposizioni sia di natura burocratica che politica, allora interviene il gruppo “armato” mediante intimidazioni ed estorsioni, oltre ovviamente all’offerta delle solite “mazzette”. Ed è, forse, questa la ferita più profonda lasciata dalla scoperchiatura dell’organizzazione di Mondo di Mezzo, cioè il dilagare irrefrenabile della corruzione nelle pubbliche amministrazioni. Un fenomeno gravissimo che, ancor oggi, investe diversi ambiti delle istituzioni statali, ove (oltre ai tanti lavoratori perbene) operano soggetti spregiudicati, disposti a vendere i poteri, attribuiti alla propria professione, alla criminalità organizzata. Secondo queste modalità, l’associazione di Carminati e Buzzi inizia ad avere vita facile e, soprattutto, ottiene la possibilità di attingere a nuove fonti di reddito in maniera illecita (appalti e servizi affidati alla cooperativa 29 giugno, senza alcun tipo di bando e conseguente gara). Il meccanismo, su cui si basa l’operato dell’organizzazione, è facilmente deducibile: attraverso la strada spianata dalla corruzione, finanziata dal denaro proveniente da attività illecite, la cooperativa vince le gare d’appalto ed ottiene fondi statali ed europei da utilizzare in progetti rivolti alla promozione di servizi di natura differente. Servizi mai erogati, denaro liquido intascato dall’organizzazione e fondi sperperati inconsciamente senza che alcun tipo di centro d’accoglienza agli immigrati, sito ambientale dedicato alla cura del verde pubblico o struttura di assistenza ai disabili risulti costruita. Un ingranaggio perfetto, senza possibili intoppi, fonte di ricchezza per disparati milioni di euro.
Si apre, dunque, l’operazione Mondo di Mezzo (così definita in quanto l’organizzazione di Buzzi e Carminati vive e si propaga in un mondo effettivamente a sé; che si localizza a metà, “nel mezzo”, tra il sotto strato illecito, da cui tutti rifuggono, e la superficie, apparentemente sana, o, per meglio dire, lecita, nella quale tutti si sentono fieri cittadini).

4 giugno 2015
Alba, questa volta, primaverile. I carabinieri del Ros, su ordinanza emessa dal gip Flavia Costantini, arrestano diciannove persone, in carcere, e poi venticinque ai domiciliari, a cui si aggiungono ventuno soggetti indagati a piede libero, oltre a nuove perquisizioni in luoghi celebri di politica e istituzioni. Proprio tali luoghi, uffici istituzionali e consigli regionali o comunali, sono i palcoscenici, ove recitano molti, moltissimi, attori che interpretano, con professionalità ed ambizione, le parti loro assegnate; attori ben retribuiti che, appunto, percepiscono lauti compensi dall’associazione per le rappresentazioni messe in scena. Sono chiamati in causa attori del calibro di famosi esponenti della politica romana (e, in generale, laziale) di destra e di sinistra che offrono all’organizzazione di Buzzi e Carminati affari di ogni genere in ambiti altrettanto diversificati, dalla concessione di appalti per punti verde e piste ciclabili sino all’estremamente remunerativo business degli “immigrati” (che, si sa, oggi, “fa guadagnà più di quello d’a droga”, come affermato da Buzzi in una telefonata intercettata dalle forze dell’ordine). Finiscono in manette, dalle poltrone alle carceri, tra gli altri, anche l’ex consigliere capogruppo Pdl (poi Fi) in consiglio comunale, a Roma, ed in seguito alla Regione Lazio, Luca Gramazio, considerato dalla Procura il “volto pulito” dell’associazione, attraverso cui riciclare denaro illecito in strategie di penetrazione nella pubblica amministrazione.

5 novembre 2015
Prende avvio il processo dinnanzi ai giudici della decima sezione penale del tribunale, i quali approvano la presenza di riprese televisive data “la portata e l’interesse sociale del dibattimento in merito a fatti di incontestabile gravità”.

7 febbraio 2017
La Procura di Roma, defilandosi dalla caotica evoluzione del processo dovuta agli innumerevoli reati contestati (non limitati unicamente all’associazione a delinquere di stampo mafioso) ed evitando l’emergere di una confusione giudiziaria non utile al susseguirsi del processo, chiede 113 richieste di archiviazioni su 116. Il decreto di archiviazione viene firmato dal gip Flavia Costantini con un provvedimento estremamente ampio e ricco di contenuti di circa novanta pagine. All’interno del quale il gip precisa le ragioni che hanno portato ad accettare quanto richiesto dalla Procura di Roma, ovvero l’assenza di elementi sufficienti per sostenere, sino a quel momento, l’accusa in giudizio e, soprattutto, l’inappurata credibilità e veridicità delle dichiarazioni accusatorie di Salvatore Buzzi. L’accoglimento delle richieste di archiviazioni determina l’uscita di scena (rispetto all’accusa di reato di associazione di stampo mafioso e non all’intero processo) di esponenti illustri della politica passata e presente della capitale, come l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ed il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Invece, pur ottenendo l’archiviazione di reati come abuso d’ufficio per il primo ed associazione a delinquere finalizzata ai delitti di rapina e riciclaggio al secondo, restano in carcere e, ovviamente, imputati nel processo principale, Luca Gramazio e Massimo Carminati.
27 aprile 2017
In merito al processo centrale, inerente alla rete criminale costituita da Buzzi e Carminati, la Procura chiede la condanna di tutti gli imputati coinvolti (quarantasei per l’esattezza, per i quali vengono richiesti circa 515 anni complessivi di reclusione). Tra cui spiccano le richieste di condanna a ventotto anni per Massimo Carminati (considerato dai pubblici ministeri la mente criminale principale dell’associazione) ed a ventisei anni e tre mesi per Salvatore Buzzi.

20 luglio 2017
Un boato (emesso dai sostenitori degli imputati) accoglie, nello stupore generale, la sentenza conclusiva del maxiprocesso: quest’ultima sancisce l’instabilità dell’impianto accusatorio, promosso dai pm del pool Antimafia. Pertanto, le pene inflitte, sebbene comunque considerevoli, risultano meno dure di quanto si sarebbe verificato nel caso fosse stata riconosciuta l’aggravante normativa del 416bis. Difatti, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi vengono condannati ad anni di reclusione, rispettivamente, di venti e diciannove. Seguono le condanne a Luca Gramazio per anni undici e ad altri membri di spicco del “clan” di Mafia Capitale, come i dieci anni a Franco Panzironi (ex amministratore delegato dell’Ama), gli undici anni a Riccardo Brugia ed i sei anni e sei mesi a Luca Odevaine (ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sull’immigrazione del Viminale).
Si conclude così, come anticipato, la prima parte della vicenda giudiziaria, avente oggetto l’operazione Mondo di Mezzo. Prima, appunto, ma non ultima.

6 marzo 2018
Si apre, ad inizio marzo, una nuova pagina del processo. Come promesso dall’aggiunto Ielo, lo scorso 20 luglio, la richiesta d’appello non si è fatta attendere e, dunque, nell’aula bunker di Rebibbia, nella mattina del 6 marzo, si ricomincia a dibattere. Da una parte, la ferma opposizione della difesa degli imputati, già accusati in primo grado (in assenza, però, di aggravante mafiosa), capitanata dall’avvocato di Massimo Carminati, Giosuè Naso; e, dall’altra, i sostenitori convinti dell’accusa, i sostituti pg Pietro Catalani, Antonio Sensale ed il pm Luca Tescaroli (in quanto magistrato del pool Antimafia che ha istruito il processo). Siamo alle battute iniziali di un incontro (scontro) processuale che chiarirà, di certo, le decisioni prese nel primo grado di giudizio e che, forse, riuscirà a sbrogliare l’intricata matassa, al cui centro, neanche a dirlo, vi è il Mondo di Mezzo.

Pare che qualcosa, a distanza di quasi un anno, ricominci a muoversi. Una forza, perpetua ed inesorabile, stimolata da un desiderio di giustizia e verità. Una flebile vibrazione che si diffonde nello spazio, quasi in maniera impercettibile. Un suono sordo, che si ripete lentamente nel tempo, trainato da un qualcosa di cui si tange l’assenza ma non la presenza. Un suono, diffuso da uno speciale fenomeno, che questa volta (si spera) venga percepito solamente da coloro che tra il lecito e l’illecito, preferiscono il mondo di mezzo.
È l’eco di Mafia Capitale. L’eco di Rebibbia.