//Mafia Capitale: a che punto siamo?

Mafia Capitale: a che punto siamo?

di Sofia Mondazzi e Gabriele Prudente

È iniziato nel marzo scorso, davanti alla Corte d’Appello di Roma, il processo di secondo grado di Mafia Capitale che segue la sentenza del Tribunale di Roma del luglio 2017 con la quale i giudici hanno condannato 41 imputati a complessivi 287 anni di carcere.
In attesa della decisione del giudice d’appello, vorremmo analizzare le motivazioni alle base della decisione del giudice di primo grado che come sappiamo ha escluso il carattere mafioso delle due organizzazioni criminali operanti nella Capitale.

“DUE MONDI” SEPARATI

Come primo punto, il Tribunale ha categoricamente negato l’esistenza di un unico gruppo criminale che avrebbe visto partecipi – a vario titolo – tutti gli imputati, come sostenuto invece dal pubblico ministero. Infatti, nelle motivazioni, i giudici rilevano la presenza di “due mondi” completamente separati, dediti ad attività prive di alcun collegamento tra loro.
La prima organizzazione si è dedicata negli anni ad attività di recupero crediti, svolta tramite modalità estorsive e d’usura. Questa “associazione” ha trovato base operativa nel “celebre” distributore Eni di Corso Francia e avrebbe visto come personaggi di spicco Carminati e Brugia, i quali si occupavano dell’attività operativa di riscossione dei crediti concessi da Roberto Lacopo.
Sull’ottenimento di appalti pubblici si sarebbe invece basata la seconda organizzazione criminale, capeggiata da Salvatore Buzzi. Nell’istruttoria dibattimentale è emerso il forte collegamento tra la parte politica e criminale, collegamento realizzato grazie agli esponenti del c.d. “mondo di mezzo”. Al centro dell’intera organizzazione vi erano alcune cooperative sociali che erano solite aggiudicarsi gare pubbliche grazie a forti agganci con il mondo politico-amministrativo.

Secondo i giudici di primo grado, nessuna prova sarebbe dunque emersa circa il possibile collegamento tra le due organizzazioni. Ad esempio, dalle intercettazioni acquisite, non è mai risulta la presenza di Buzzi presso il distributore di Corso Francia, né quella di Lacopo (concessore dei crediti) presso le sedi di cooperative o organi istituzionali. Inoltre, il Tribunale spiega come Lacopo non avrebbe avuto alcun interesse economico dall’accaparramento di appalti da parte delle cooperative relative a Buzzi. In definitiva, sarebbe mancata sia la consapevolezza soggettiva degli imputati di far parte di un unico gruppo criminale sia una forma di dolo specifico, richiesta dal reato associativo. Unico punto di contatto viene individuato dal Tribunale nella figura di Massimo Carminati.

MAFIA CAPITALE NON È MAFIA

Per il Tribunale, le due organizzazioni non sarebbero qualificabili sotto la fattispecie tipica del delitto di cui all’art. 416 bis del codice penale. Tale reato richiede la presenza di una pluralità di soggetti, agenti al fine di apportare un contributo alla realizzazione di un programma criminale con metodo mafioso. Si parla di metodo mafioso quando sussistono contemporaneamente tre elementi caratteristici. Il primo è costituito dalla forza d’intimidazione, cioè la capacità di incutere paura in modo sistematico. L’assoggettamento, secondo requisito, si manifesta invece come stato di sottomissione psicologica delle vittime dell’organizzazione. Infine l’omertà, intesa come diffusione nel territorio di un rifiuto generale di collaborazione con gli organi della giustizia, anche tramite testimonianze false e reticenti.

Nel negare il carattere mafioso, il Tribunale esclude in primis la possibilità di una qualunque derivazione delle due organizzazioni da precedenti formazioni criminose.
Smontando la tesi della Procura, i giudici sostengo come l’unico possibile punto di contatto con l’estinta Banda della Magliana sarebbe potuto essere Carminati ma in realtà si evidenza come questo non significhi automatico ripristino dell’intera organizzazione criminale. Vengono in successione analizzate altri organizzazioni preesistenti o concomitanti di cui però viene categoricamente escluso il collegamento.
Il ragionamento dei giudici prosegue poi nel negare che le due organizzazioni sarebbero caratterizzate da un “metodo mafioso” ed escludendo di conseguenza la configurabilità del reato di associazione di stampo mafioso (art 416 bis c.p.).

Nell’escludere anche una forma di “mafia autonoma” riguardo il primo gruppo criminale, il Tribunale di Roma evidenza come manchi il tipico requisito dell’intimidazione, intesa come stato di timore grave, così diffuso da produrre una generalizzata situazione di assoggettamento e omertà. Infatti, le azioni di recupero crediti condotte con metodi decisamente intimidatori e violenti, erano rivolte – e di conseguenza provocavano timore – solo nei confronti dei singoli debitori. Altri elementi che vengono presi in considerazioni sono la scarna composizione dell’organizzazione, il numero modesto di vittime relative ad un altrettanto limitato contesto territoriale.
Riguardo al carattere mafioso dell’organizzazione dedita all’ottenimento di appalti pubblici, la sola esistenza del c.d. “mondo di sotto”, dotato comunque di una minima forma intimidatrice, non viene considerato sufficiente da poter costituire il “metodo mafioso” di cui all’art 416 bis.

In aggiunta, il Tribunale nega la tesi accusatoria dell’esistenza di una conventio ad excludendum derivante da condizionamenti mafiosi negli appalti pubblici, poiché si sarebbe trattato in realtà di un “diffuso sistema di assegnazione delle gare” con criteri meramente politici che configurano un tipico caso di corruzione.

Di conseguenza, la X Sezione penale del Tribunale di Roma ha riconfigurato l’imputazione in associazione a delinquere “semplice” di cui all’art. 416 c.p.

Vedremo ora se la Corte d’Appello accoglierà da un lato la richiesta formulata dalla Procura Generale di ripristinare lo “stampo mafioso” dell’associazione o se dall’altro sposerà le tesi difensive.