Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, alle ore 1.04, in Via dei Georgofili, un’antica via del centro storico di Firenze, ai piedi della storica Torre del Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, deflagra un’autobomba.
Si tratta di una Fiat Fiorino imbottita di 250 chilogrammi di una miscela esplosiva composta da tritolo, T4, pentritee nitroglicerina. L’esplosione provoca il crollo della Torre sede dell’Accademia dei Georgofili e la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto che è stato definito “bellico”.
Le conseguenze furono tragiche: l’esplosione provocò la morte di 5 persone: Caterina Nencioni di 50 giorni, Nadia Nencioni di 9 anni, Angela Fiume di 36 anni, Fabrizio Nencioni di 39 anni, Dario Capolicchio di 22 anni. Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili, risiedeva nella Torre con la sua famiglia. Dario, che proveniva da Sarzana e studiava architettura a Firenze, morì trasformato in una torcia umana nella sua abitazione, situata nell’edificio davanti alla Torre. I feriti furono 48 e moltissime famiglie rimasero senza tetto. Molti edifici della zona, come Palazzo Vecchio ed il complesso artistico monumentale della Galleria degli Uffizi, subirono gravi danni e si persero per sempre capolavori e preziosi documenti. Il 25% delle opere presentinella Galleria subì gravi danni, e cinque vite umane furono troncate.
L’ipotesi che l’esplosione fosse frutto di un attentato prese corpo a partire dal giorno successivo, quando le forze dell’ordine individuarono il cratere di 3 metri di diametro e 2 di profondità causato dall’esplosione. Altrettanto rapidamente si scoprì che la Fiat Fiorino era stata rubata nella stessa Firenze non molti giorni prima dell’attentato e “imbottita” a Prato.
Questo colpo, che nella memoria pubblica è noto come l’attentato dei Georgofili, fu in realtà secondo le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia un attacco terroristico agli Uffizi che la mafia siciliana organizzò come strumento di pressione nei confronti del governo, ma che realizzò maldestramente, non conoscendo Firenze e sbagliando dunque la collocazione dell’autobomba. Le cinque vittime furono quindi, per i criminali, dei semplici danni collaterali nel quadro di una strategia che puntava alla rivincita, dopo che nel gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato la sentenza del cosiddetto «Maxiprocesso» con la conseguente condanna all’ergastolo in contumacia di Totò Riina ed altri boss.
Si susseguirono così, nella primavera e nell’estate del 1992, gli omicidi di Salvo Lima (leader della corrente andreottiana della Democrazia cristiana in Sicilia) e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali si erano occupati di guidare l’inchiesta del processo. In seguito a quest’ultimo attentato, si inasprì per i detenuti mafiosi il regime regolato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Da questo momento in avanti, per Cosa Nostra il nemico non si incarnava più soltanto negli oppositori diretti sul territorio, ossia le forze dell’ordine e i magistrati che li perseguivano in prima persona, bensì nello «Stato e le sue leggi», che andavano allora piegati attuando un’escalation di azioni terroristiche su scala nazionale.
L’arresto di Riina nel gennaio 1993 complicò gli equilibri al vertice dell’organizzazione mafiosa e l’adozione della nuova strategia stragista avvenne solo al termine di un contrastato dibattito. Si trattò di un salto di qualità «politico» – uscire dal territorio siciliano per confrontarsi direttamente col potere centrale – senza precedenti nella storia di Cosa Nostra.
Il risultato fu una sequenza ravvicinata di attentati in cui si inserisce quello di via dei Georgofili, insieme a quelli di Roma alle chiese di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano e di Milano in via Palestro nell’estate del ‘93. Il primo fu il fallito attentato al giornalista televisivo Maurizio Costanzo, in prima linea nella lotta contro Cosa Nostra.
Il modus operandi era sempre lo stesso: auto rubata, caricata di esplosivo e posta nei dintorni di un luogo di esplicito valore simbolico (nella fattispecie gli studi romani dove si registrava la trasmissione di Costanzo). L’alto numero di feriti (27) e le lesioni ai palazzi circostanti ci permettono di vedere chiaramente l’intento stragista: solo uno sbaglio fortuito (l’errata individuazione della macchina con a bordo Costanzo) non produsse un numero di vittime paragonabile a quello successivo di Firenze.
La logica del tutto nuova entro cui si mosse Cosa Nostra venne identificata come tipicamente terroristica e riprese da vicino l’esperienza degli anni Settanta. Dalla strategia di organizzazioni terroristiche come le Brigate Rosse mutuò la scelta di obiettivi simbolici, ma non già per sviluppare un ipotetico consenso di massa, quanto più per dare l’impressione di poter colpire impunemente chiunque.
Dal punto di vista di Cosa Nostra, però, la strategia terroristica non fu finalizzata ad un cambiamento degli equilibri politici, bensì ad imporre la cancellazione, o quanto meno l’attenuazione, delle norme di aggravamento del regime carcerario (il famoso articolo 41 bis). Ciò non solo per quanto riguardava le condizioni più severe di vita quotidiana, ma anche e soprattutto per il rigoroso impedimento ai capi mafiosi di comunicare con l’esterno.
Così, due settimane dopo l’attentato a Costanzo, con la stessa modalità, esplose la suddetta autobomba a Firenze nei pressi della Galleria degli Uffizi. I feriti furono una quarantina, accompagnati da cinque giovani vite spezzate. Le intenzioni stragiste si confermarono così in modo drammatico, insieme alla scelta di un luogo simbolico ed assai deterrente: «Possiamo distruggere i capolavori artistici dell’Italia».
Nel giugno 1998 la sentenza di primo grado condannò come esecutori dell’attentato dei Georgofili nove esponenti dei clan mafiosi. Tra di essi fu identificato Gaspare Spatuzza, che nel 2008 divenne collaboratore di giustizia, confermando e allargando il quadro accusatorio. Il salto di qualità tentato da Cosa Nostra suscitò una forte reazione dell’opinione pubblica, forse perché per la prima volta ci si rese conto che il problema mafioso non si limitava più alla Sicilia, ma riguardava tutto il Paese. Dopo un lungo iter processuale vennero comminati 15 ergastoli, definitivamente attribuiti dalla Cassazione il 6 maggio 2002.
Dieci anni, però, non sono stati sufficienti a scoprire chi ha ordinato questa strage, o, quantomeno, chi ne era a conoscenza e non l’ha fermata perché i suoi interessi coincidevano con quelli della Mafia. Quanto ancora dovremo aspettare per scoprire quei volti?
Il problema di fondo, che rimane tuttora dibattuto, riguarda la questione della «trattativa». Il «bastone» degli attentati riuscì ad ammorbidire il governo e ottenere un miglioramento delle condizioni carcerarie? Almeno in teoria, l’abbandono della strategia terroristica da parte di Cosa Nostra potrebbe avvalorare il sospetto che qualche obiettivo sia stato raggiunto. In realtà, le restrizioni nei confronti dei detenuti mafiosi previste dall’articolo 41 bis vennero prorogate per tre volte fino al 2002. Quindi sul piano pratico se pure ci sia stata, si può dire che la «trattativa» non abbia sortito effetti significativi in questo senso.
di Chiara Banti