1982 – 2022
Sono trascorsi più di quarant’anni dagli inizi degli anni ’80, un’epoca in cui l’Italia cercava un ritorno alla normalità che seguisse agli attentati ed alle leggi speciali, tracce indelebili degli anni di piombo.
Gli eventi di queste ultime settimane, quanto le commemorazioni dei mesi scorsi, ci hanno aiutato a ricordare uomini e donne delle istituzioni che si sono posti, allora, a salvaguardia dell’assetto democratico della Repubblica.
Tra i tanti nomi uno che emerge particolarmente dalla memoria collettiva è quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il nostro generale, infatti, come ribattezzato dai media nazionali, è l’emblema del contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Tuttavia, sarebbe riduttivo serbarne il ricordo in relazione a queste sole battaglie, che costituiscono l’epilogo della sua vita; piuttosto è bene rilevarne la più ampia eredità, al contempo investigativa ed etica.
Effettivamente, Dalla Chiesa è stato prima di tutto un uomo della Resistenza, di quelli che “ha fatto l’Italia repubblicana”, nonché un carabiniere al servizio delle istituzioni, prima contro il banditismo ed in seguito nel contrasto al terrorismo e ad altri nuclei eversivi.
Quel 3 settembre 1982, in via Carini, è la mafia ad interrompere la sua attività di prefetto a Palermo. A tal proposito, dopo tanti anni, è legittimo domandarsi se conoscere certi fatti, gettare luce su taluni misteri, sia ancora da legare a necessità di giustizia, piuttosto che a mera esigenza storica. In realtà, tutto pare essere ancora maledettamente attuale: la strategia della tensione terroristica prima (anni ‘70) e mafiosa poi (perdurata fino agli anni ‘90), non si è del tutto arrestata, diversamente è diventata più raffinata, assumendo contorni tanto meno ideologici quanto più indirizzati al perseguimento di interessi puramente economici.
Il denaro, infatti, rappresenta storicamente il vero motore delle organizzazioni criminali, ed in particolare di quelle mafiose. Non troppe persone avevano intuito 40 anni fa il ruolo dell’illecito arricchimento nel quadro evolutivo di Cosa nostra e delle altre mafie. Una persona sicuramente lo fece: Pio La Torre.
Quest’ultimo, dirigente del PCI in Sicilia, il 30 aprile di quel 1982 cadde anch’egli vittima di un attentato politico-mafioso. Le ragioni della sua uccisione, secondo lo stesso Dalla Chiesa, sono da imputare a tutta la sua vita 1. La Torre, in effetti, ha fondato la sua esistenza sul perseguimento di valori democratici e improntati al senso di legalità. Il movente principale della morte, però, è da ricondurre alla sua proposta di legge, la 646 del settembre 1982, recante il suo nome 2, ed indirizzata a definire l’appartenenza alle organizzazioni mafiose un reato, come pure a fornire agli inquirenti gli strumenti necessari ad aggredire i patrimoni mafiosi.
Ecco spiegato, dunque, il motivo per cui Dalla Chiesa, così insistentemente, a partire da quel 30 aprile, giorno del suo insediamento come prefetto nel capoluogo siciliano, chiese a politici ed istituzioni il perseguimento della proposta di legge a prima firma La Torre. Con gli strumenti predisposti dal Deputato siciliano nel testo della norma, infatti, gli inquirenti avrebbero potuto colpire la criminalità fin dalle radici: senza risorse economiche non esiste traffico di droga (peraltro all’epoca la Sicilia era non già un’isola di stoccaggio, bensì una delle raffinerie del Continente), né tantomeno infiltrazioni nel tessuto economico legale.
A questo riguardo, non è un caso che lo stesso La Torre, nelle settimane antecedenti la sua tragica morte, volesse promuovere un intervento legislativo mirante all’abolizione del segreto bancario, che è pacifico ritenere costituisca ostacolo nelle indagini riguardanti gli interessi delle organizzazioni mafiose, le quali se ne servono per schermare i proventi non ancora riciclati.
Ad ogni modo, entrando nel merito della disciplina, l’articolo 416-bis c.p., introdotto con la suddetta legge 646 del settembre 1982, ha sancito una distinzione netta tra ciò che è un’organizzazione criminale “semplice”, afferente ai soli crimini violenti, e ciò che corrisponde ad un’organizzazione criminale “di stampo mafioso”, mirante alla ricapitalizzazione dei proventi delle attività illecite.
Questo però non era ancora sufficiente, dal momento che l’arresto da solo non frena l’organizzazione e l’impresa criminale per almeno due motivi. Da un lato, i mafiosi avrebbero potuto mantenere contatti con l’esterno anche da dentro le celle. A tal proposito, è esemplificativa l’attività di Dalla Chiesa, il quale promosso nel 1977 Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena italiani operò il trasferimento di numerosi terroristi e mafiosi in strutture ad hoc (c.d. Carceri speciali) al fine di escludere possibili casi di contiguità tra i membri.
Ma siccome recidere i contatti non era ancora abbastanza, dall’altro lato era necessario mirare ai mezzi e, quindi, alle risorse economiche delle organizzazioni.
Ebbene, l’articolo 416-bis c.p. consente di sequestrare i beni dell’indagato allorquandosi abbia la prova che nei cinque anni precedenti si siano verificati arricchimenti di cui non si riesca a dimostrare la legittima provenienza. Con ciò viene esclusa l’esigenza di una sentenza di condanna che il nostro stesso Codice penale vincolava, prima dell’82, a condizione necessaria per procedere al sequestro.
Tuttavia, siffatto articolo non costituisce solamente la genesi dell’intera legislazione antimafia, ma ne riassume in sé lo spirito: non banalmente consegnare alla giustizia i mafiosi, i quali, peraltro, erano spesso dichiarati non colpevoli proprio a causa dell’assenza di strumenti probatori adeguati e sufficienti ad una tesi accusatoria in ambito processuale, ma sequestrare e restituire alla società depredata quanto ad essa sottratto con scopi nocivi all’economia nazionale e legale.
Più volte, inoltre, si è avvertita la necessità di estendere la disciplina di detta norma ai fiancheggiatori esterni che sempre più agevolano e soccorrono le organizzazioni nei loro intenti di penetrazione nel tessuto economico nazionale. In questa direzione si è mossa per la prima volta la Cassazione nel 1994 3, configurando penalmente il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ciononostante, è anzitutto il governo, rappresentante l’indirizzo politico del Paese, a dover promuovere nuove iniziative che stimolino con regolarità il dibattito su tali tematiche, nonché adeguino gli strumenti di contrasto alle evoluzioni del metodo mafioso. Quest’ultimo, di recente, muove sempre più nella direzione di un camaleontico e pervasivo radicamento che coinvolge soggetti, i quali poco hanno a che vedere con la stereotipata immagine della mafia del pascolo e della periferia 4, ma si accostano maggiormente agli ambienti dell’economia finanziaria e del mondo dei colletti bianchi, difficilmente assoggettati alla punciuta (i.e. rito di iniziazione dell’organizzazione).
Al netto di quanto fin ora preso in considerazione, risulterebbe dunque errato sostenere che persone come Dalla Chiesa siano state semplici sostenitrici “esterne” della “Rognoni-La Torre”. Quest’ultima è una legge scritta col sangue, frutto cioè del sacrificio umano di molti, tra cui quello dello stesso generale, che venne barbaramente assassinato proprio dieci giorni prima della sua approvazione in Parlamento.
di Jacopo Rocca
1 V. Intervista resa a Giorgio Bocca nell’estate dell’82, su Repubblica.
2 Legge Rognoni-La Torre, dal nome anche dell’allora Ministro degli Interni Virginio Rognoni.
3 V. Cass. Pen. SS. UU. 5 ottobre 1994, n. 16, sentenza Demitry.
4 Sebbene le campagne costituiscano ancora oggi un proficuo contesto di studio delle organizzazioni, dal momento che ne sono state l’habitat costitutivo fin dal lontano XIX secolo