//Due vittime diverse, della stessa guerra

Due vittime diverse, della stessa guerra

«Da questa esperienza ho capito una cosa: la vera rivoluzione non era la lotta armata, ma […] il dialogo. La giustizia riparativa».

Nozioni di giustizia riparativa

Una definizione formale di giustizia riparativa è contenuta nel d.lgs. n. 150/2022: Ai fini del presente decreto per giustizia riparativa si intende ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore. [1]

Chiaramente una prosa di questo tipo non è d’immediata comprensione. Le definizioni normative risultano particolarmente intricate persino per giuristi ben formati. Ad ogni modo, è indubbio che detto decreto raccolga in sé l’essenza stessa della giustizia riparativa, poiché per il nostro Paese esso non rappresenta già un punto d’arrivo, ma più propriamente un traguardo.

Di giustizia riparativa, infatti, si è iniziato a discutere in modo sistematico a partire dal 2002, quando le Nazioni Unite elaborarono una risoluzione dal titolo piuttosto esplicativo: Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale.[2]

Questo testo contiene molti degli orizzonti orientativi posti a fondamento delle legislazioni nazionali successive. In primo luogo, viene sancito che la giustizia riparativa deve svilupparsi parallelamente con l’evoluzione del crimine. Essa, inoltre, dovrebbe rispettare la dignità e l’uguaglianza delle persone allo scopo di promuovere l’armonia sociale attraverso la guarigione delle vittime, dei colpevoli e delle comunità. Al contempo, viene sottolineata la necessità di perseguire le esigenze dei soggetti coinvolti, i quali si trovano nelle condizioni di poter condividere i propri sentimenti e le proprie esperienze cosicché le vittime possano nuovamente sentirsi al sicuro, i trasgressori divengano consapevoli degli effetti dei loro comportamenti e, infine, le comunità possano comprendere le cause della criminalità ed in questo modo tentare di prevenirla. Peraltro, tutto ciò deve avvenire senza ostacolare la volontà di ciascuno Stato di perseguire i presunti autori di un reato.[3]

Il cosiddetto risultato riparativo, nelle intenzioni delle Nazioni Unite, dovrebbe consistere in risposte e programmi come la riparazione, la restituzione, nonché servizi resi alla comunità, volti a soddisfare i bisogni e le responsabilità individuali e collettive delle parti, perseguendo il reinserimento della vittima e dell’autore del reato.[4] Ovviamente tutto ciò dovrebbe accadere nel rispetto dei tradizionali concetti di giusto processo e nella totale sicurezza per il trasgressore che la sua adesione ad un programma riparativo non possa essere utilizzata contro di lui in un successivo giudizio. L’imparzialità delle parti e la loro buona fede nello svolgere le operazioni in piena riservatezza e nel rispetto degli accordi assunti sono tra i principali presupposti.

Ulteriore tappa del percorso fino ad ora illustrato è da ricercarsi nella Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012. In breve, il testo si inquadra come un vero e proprio manifesto dei diritti della vittima di un reato[5], la quale viene tutelata sulla base di tre pilastri fondamentali: informazione e sostegno, partecipazione al procedimento penale, protezione generale e specifica.[6] Una prima novità presente nel documento, in perfetta armonia con gli obiettivi appena richiamati, risiede nel considerare il reato come lesivo dei diritti fondamentali della persona, la quale, per tale ragione, deve essere trattata con le più ampie cautele.

Peraltro, la nuova normativa amplia il concetto stesso di vittima, allargandolo ai familiari.[7] Quest’ultimi, infatti, possono essere a loro volta vittime dirette di un reato o possono aver subito un pregiudizio successivo, meritando per questo le medesime tutele degli altri attori.

Recentissima ed ultima necessaria tappa che ci riconduce nuovamente al d.lgs. 150/2022 sono le Raccomandazioni del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, elaborate dal Consiglio d’Europa nel 2018, le quali, riprendendo nozioni fin qui già sommariamente trattate, si concludono con la previsione che Gli Stati membri dovrebbero promuovere, sostenere e favorire la ricerca sulla giustizia riparativa, nonché i governi nazionali e locali, le autorità giudiziarie, le agenzie della giustizia penale e le agenzie della giustizia riparativa dovrebbero intraprendere attività promozionali al fine di sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica sulla giustizia riparativa.[8]

In conclusione di questo breve squarcio normativo, la giustizia riparativa si configura come un nuovo paradigma nella giustizia penale costruito soprattutto tramite l’esperienza sul campo. Sebbene un quadro relativo alle principali fonti normative nazionali e sovranazionali sia utile, le parole di spiegazione sono quasi sempre insufficienti. Le definizioni legislative, infatti, sono necessarie in quanto creano uno spazio nel quale la giustizia riparativa possa prendere forma. Non creano, ma ospitano una possibilità di vita nuova per vittime e trasgressori. Tuttavia, molto più potente è il racconto dell’esperienza di chi è stato davvero protagonista di questa nuova modalità di guardare alla giustizia penale.

Storie da cui ripartire

La prima storia è quella di Franco Bonisoli (1955), un giovane originario di Reggio Emilia, cresciuto da genitori operai, comunisti, che a soli 19 anni fece la scelta della lotta armata, aderendo alle Brigate Rosse. 

Era allora diffuso tra le giovani generazioni un grande desiderio di cambiamento che attraversava come un vento tutto il mondo. Eventi globali e per questo lontani, come la guerra del Vietnam, venivano percepiti al pari di ferite personali, quali segni di ingiustizia. La reazione poteva consistere in due soli approcci: l’indifferenza o la ribellione. Quest’ultima, scelta dallo stesso Bonisoli, era la strada che includeva l’uso della violenza, la quale, però, è bene sottolineare, fu utilizzata come strumento tanto a sinistra quanto dalla stessa area cattolica e di destra.

Nell’immaginario di Bonisoli, come anche di molti altri sodali delle organizzazioni, la violenza era un mezzo che avrebbe caratterizzato una certa fase della ribellione. La prospettiva finale era quella di un mondo migliore, fondato sulla pace sociale. Tutto ciò non poteva accadere senza l’abbattimento del mondo attuale, ritenuto profondamente ingiusto. Le Brigate Rosse rispecchiavano questa visione manichea ed erano per Bonisoli le uniche più visivamente in grado di trascendere dall’ideologia ai fatti. Entrare al loro interno, infatti, significava annullare la propria vita precedente, per dare tutta la propria esistenza alla causa, questa sì, ritenuta giusta.

Ad ogni modo, annullare la propria vita è un’espressione piuttosto evanescente. Cancellare il proprio mondo fino a quel momento passa attraverso la distruzione dei documenti, con la necessità di procurarsene di nuovi; trasferirsi da una città di contesto, contraddistinta dall’atmosfera familiare, in cui poter coltivare un’esistenza profonda, ad una metropoli anonima in cui prendere posto quali soldati sacrificabili di una macchina da guerra. Quest’ultima non poteva che muovere dall’eliminazione dei rappresentanti della società ingiusta e cioè i politici, azionando così la lunga stagione di agguati ed attentati. Chiaramente gli attentati non provenivano solo da una parte, ma la violenza sostanzialmente ne chiamava dell’altra, dal momento che tutti si sentivano minacciati e rispondevano con nuove e più pericolose iniziative, attivando in questo modo una spirale di ferocia.

Dopo quattro anni di latitanza passati a compiere, nelle sue stesse parole, il proprio dovere, Bonisoli, a soli 23 anni, fu arrestato nel celebre covo delle BR in via Montenevoso. L’incarcerazione ebbe luogo in una delle carceri speciali allora appositamente predisposte per accogliere coloro che si fossero macchiati, tra gli altri, di reati legati al terrorismo.

Il carcere duro era uno strumento non solo cautelativo di fronte ai rischi di evasione o comunicazione con l’esterno, ma mirava altresì ad indurre i membri dell’organizzazione a collaborare. Nella testimonianza di Bonisoli, invece, questo iniziale approccio da parte dello Stato fu controproducente. La carcerazione speciale, infatti, non lo piegò affatto. Per certi versi egli si radicalizzò ulteriormente nelle sue adesioni ideologiche, tanto da porsi come unico obiettivo l’evasione col fine di ricongiungersi con i compagni che si trovavano all’esterno. Peraltro, la massima sicurezza non era neppure utile ad evitare scontri e tumulti o l’ingresso di armi o strumenti di evasione, come degli esplosivi.[9]

A conclusione dei processi che lo riguardarono, Bonisoli ricevette importanti condanne. Ciò si spiega perché i brigatisti, nella loro arroganza, non riconoscevano la giustizia dello Stato, ritenendola una giustizia borghese. Questo li portò sempre a rifiutare la difesa da parte di un legale. Complessivamente, Bonisoli avrebbe dovuto scontare quattro ergastoli, tuttavia oggi è essenzialmente una persona libera. In effetti, riuscì a beneficiare di alcuni sconti di pena, i quali furono il risultato di una serie di battaglie politiche e sociali di cui lui stesso, insieme ad altri ex combattenti armati, fu protagonista dal carcere.

Dopo alcuni anni di reclusione trascorsi all’interno delle carceri speciali, infatti, Bonisoli venne trasferito insieme ad altri brigatisti a Le Vallette di Torino. La sua percezione all’arrivo nella nuova struttura è paragonabile a quella di un plotone pronto ad imbracciare le armi. Le premesse erano state fin troppo chiare: i brigatisti chiamavano le carceri speciali kampi, in quanto li paragonavano a campi di concentramento. Le sofferenze che dovettero patire li resero ancora più bellicosi di quanto non lo fossero stati al di fuori, prima della cattura. La loro violenza, però, dovette fare il palio con la benevolenza del direttore. Quest’ultimo, in effetti, fu capace, ricorda Bonisoli, di spostare il tavolo da gioco. Egli, infatti, chiese di formare una delegazione tra tutti i nuovi arrivati e portare problemi, nonché richieste del gruppo all’attenzione della dirigenza. Dunque, ponendo le due parti sullo stesso piano, il direttore fu capace di aprire per la prima volta al dialogo, abbassando il livello dello scontro. Tutto ciò favorì, altresì, il rapporto con l’esterno, inteso come contatti con le proprie compagne. Improvvisamente, da una separazione forzata con la realtà, divennero tutti attori di un dialogo spontaneo che ridusse la belligeranza.

Parallelamente a questo importante percorso nel carcere, però, il processo che ancora era in corso si chiuse con i suddetti quattro ergastoli, dal momento che la responsabilità penale non si può cancellare. Fu allora che Bonisoli concepì nel rapporto tra la sentenza di carcere a vita ed il tentativo di recupero vissuto a Le Vallette una sorta di contraddizione: dove l’esperienza era già arrivata, invece, la legislazione tardava ad innovarsi nella stessa direzione. Sebbene all’epoca, infatti, si potesse già diventare collaboratori di giustizia denunciando i propri compagni, gli eventuali sconti di pena non erano ancora stati ben delineati dal Parlamento.

A tal proposito, un ruolo fondamentale di propulsore nel porre all’attenzione della politica le conseguenze negative di un carcere chiuso, orientato al solo perseguimento della pena e non anche al recupero del condannato, lo ebbe il cardinale Martini. Fu quest’ultimo, infatti, ad affermare che se il carcere era necessario per fermare certi fenomeni criminali, bisognava parimenti riconoscere la dignità umana delle persone detenute. La scelta da parte dei brigatisti di iniziare uno sciopero della fame per porre all’attenzione dell’opinione pubblica la realtà da loro vissuta venne disinnescata proprio da Martini, il quale in una lettera aperta ai giornali scrisse che non avrebbe voluto celebrare il Natale, allora alle porte, sapendo che sei suoi fratelli avevano deciso di morire in carcere.

A quel punto il passo verso le riforme fu breve. Gli anni immediatamente successivi furono, difatti, segnati dapprima dall’abrogazione dell’articolo 90 della legge 354/75 a riguardo del carcere duro, a cui bisogna ragionevolmente affiancare l’approvazione della riforma Gozzini, che aprì parzialmente le porte del carcere con l’assegnazione di premi e uscite per i detenuti, nonché la cosiddetta legge sui pentiti, la quale, tra le altre cose, consentiva a chi avesse ammesso le proprie responsabilità di rete e cioè la propria appartenenza all’organizzazione unitamente a forme di collaborazione con gli inquirenti, di godere di sconti di pena. Sono queste riforme a consentire a Bonisoli, dopo 21 anni, l’uscita dal carcere.

La seconda testimonianza è quella di Manlio Milani (1938), la cui esperienza di vita presenta numerose analogie con quella di Franco Bonisoli, sebbene si sia espressa in modo diverso in ragione di circostanze specifiche.

Nato nel 1938 in una famiglia di estrazione popolare, Manlio Milani fu suo malgrado posto di fronte ai più brutali connotati della violenza sin dai primi anni di vita. Testimone della profonda sofferenza fisica e psicologica arrecata dalla Seconda Guerra Mondiale, esacerbata in Italia dallo scoppio della guerra civile negli ultimi due anni, egli crebbe in una nazione devastata e completamente da ricostruire dopo oltre 20 anni di dittatura fascista, culminati nel suddetto conflitto. L’indigenza e la profonda sofferenza che caratterizzarono la sua infanzia furono però affiancate dalla speranza in un futuro più prospero, che risparmiasse all’Italia nuove forme di violenza.

Acquisita consapevolezza della realtà che lo circondava e dei processi storici che l’avevano plasmata, Milani avvertì con crescente urgenza il desiderio di ribellarsi e di esprimere la propria identità, ripudiando però la violenza che aveva vissuto in prima persona. La sua gioventù fu tuttavia caratterizzata da forti tormenti e non fu esente da scelte che egli stesso definisce totalizzanti. Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, Milani si iscrisse al Partito Comunista Italiano, divenne un militante di spicco della CGIL e si proclamò fermamente ateo. Questa direzione radicale della sua militanza politica fu per sua stessa ammissione in aperto contrasto con alcuni dei suoi valori e con il suo modo di essere. 

Il rapporto di Milani con l’Antifascismo fu piuttosto tormentato. Egli fu innanzitutto un esponente paradigmatico dell’Antifascismo militante, attribuendosi una chiara collocazione politica e ideologica, dentro la quale però si sentì sempre più costretto in nome del suo desiderio di ribellarsi e di lasciare la propria impronta in una nazione in fase di rinascita. Alla luce dei propri trascorsi e successive esperienze di vita, Milani concepì l’Antifascismo sempre più non solo sul piano ideologico, ma piuttosto come un movimento complesso che, basandosi sul compromesso, consentì ad una nazione martoriata di superare le divisioni interne e, dunque, pacificarsi.

Il 28 maggio 1974, la consapevolezza di Milani circa la propria militanza politica e il modo di manifestarla all’interno di una società complessa e variegata fu profondamente influenzata dalla drammatica Strage di Piazza della Loggia, perpetrata dalla destra eversiva italiana. Egli venne risparmiato dalla deflagrazione grazie ad una chiacchierata scambiata con un amico in prossimità del punto esatto dove questa avvenne pochi istanti dopo, mentre la moglie Livia ed altre sette persone rimasero uccise.

Essere nuovamente testimone ravvicinato di una violenza così inaudita e disumana lo condusse inizialmente a racchiudersi entro se stesso ed entro il proprio dolore, interrogandosi incessantemente sui motivi della sua fortuita sopravvivenza ed auspicando un ritorno della moglie, quasi ignorando dunque non solo che vi fossero state altre sette vittime (che tra l’altro egli conosceva), ma anche che la Strage avesse simbolicamente colpito un’intera nazione, dunque anche chi non ne era stato toccato in prima persona.

Il confronto con la collettività e il passare del tempo resero Milani sempre più consapevole che la Strage di Piazza della Loggia non potesse essere da lui solamente concepita come un fatto privato, nonostante il dolore immane provocato dalla perdita della moglie, ma piuttosto come un evento drammatico di più ampie proporzioni, che sembrava quasi contrapporre il Bene con il Male, e che richiedeva un’approfondita analisi per comprendere anche le ragioni di coloro che si erano macchiati di tanta disumanità. Questo divenne per lui possibile nel corso delle numerose fasi del lungo processo, che nel 2017 ha portato alle prime condanne definitive da parte della Corte di Cassazione, durante il quale Milani ebbe naturalmente la possibilità di ascoltare i vari imputati e di maturare una propria opinione su di essi, cercando dunque di andare al di là del proprio dolore e delle proprie idee.

Che cosa ripara la giustizia riparativa?

Torna spesso nelle parole di Bonisoli il concetto di ingiustizia. Questo termine è centrale in un discorso che tenti di definire la giustizia riparativa. Riparare significa anzitutto che vi è presente qualcosa di rotto o comunque di non funzionante. Dalla sua storia, non a caso, si può ben comprendere come di sbagliato, o ingiusto appunto, nel percorso di un trasgressore quale Bonisoli stesso è stato, è il primo luogo che un condannato incontra: il carcere.

Negli anni ’70 il carcere ed in particolare il carcere speciale era ancora tutto orientato ad un approccio punitivo, il quale si interroga ben poco sulle possibilità di recupero del condannato. Tuttavia, i concetti chiave della giustizia riparativa non possono più consistere in chi merita di essere punito con quali sanzioni, bensì in questioni quali chi soffre e cosa può essere fatto per riparare il dannoButtare via la chiave, direbbe Bonisoli, non ha alcun senso. Il carcere, in altre parole, deve essere giusto: il comportamento del direttore di Le Vallette, ad esempio, è un comportamento che ripara e non apre ulteriori ferite.

Ciò detto, riparare il danno non può consistere solamente in una compensazione economica. Nell’esperienza di Bonisoli la giustizia riparativa ha riparato anzitutto da un’ideologia malata che deumanizza e reifica le persone, cosicché in una logica di guerra possano uccidere ed essere uccise in modo sistematico, senza esitazione. Di fronte non si avverte la presenza di un simile, ma una funzione, un ruolo, che in quanto ingiusto, deve essere abbattuto. Ciò che sfugge, però, è che disumanizzando l’altro, si abdica altresì alla propria umanità.

Il percorso di giustizia riparativa, a tal proposito, è certamente più difficile di quello che porta a delinquere. Per Bonisoli ammettere le proprie responsabilità avrebbe significato commettere tradimento. Detto altrimenti, significherebbe entrare in contraddizione con se stessi, dichiarando ingiusto ciò che fino a prima era stato l’antidoto all’ingiustizia.

Tutto ciò è difficile da capire, ma percorsi di questo tipo consentono anche ad una vittima di poter comprendere il punto di vista di un trasgressore. A tal riguardo esemplificativo è il caso di Milani, al quale la giustizia riparativa ha permesso di stabilire rapporti con persone che avevano compiuto scelte di vita radicalmente diverse dalle proprie, come appunto gli ex-combattenti armati. Il confronto con esperienze e posizioni così diametralmente opposte, infatti, ha rafforzato in lui la convinzione che il dialogo fra le varie parti sociali sia l’unico modo per evitare qualsiasi forma di violenza, acquisendo inoltre consapevolezza che la sua militanza politica giovanile, sebbene non violenta di per sé, non avesse sempre seguito questo principio. I Neofascisti, infatti, non erano per nulla trattati come semplici avversari politici. Contrariamente, erano visti come nemici dello Stato con le conseguenze pericolose del caso. Pur essendo stato una vittima innocente della Strage di Piazza della Loggia a seguito della perdita della moglie, Milani avverte dunque una forte responsabilità individuale per le dinamiche storiche che portarono a questo tragico evento, sentendosi tenuto a mettere la propria esperienza a disposizione della collettività così da evitare che questa violenza si verifichi nuovamente ai nostri giorni.

La giustizia riparativa ha quindi consentito a Manlio Milani di prendere consapevolezza della brutalità della violenza, la quale tronca i rapporti umani e disumanizza gli individui stessi, ma che deve essere studiata e compresa nella sua fattualità, e non accettata come una componente imprescindibile dello scontro fra posizioni diverse all’interno della società. Diversamente, la giustizia riparativa, partendo dall’ascolto di colui che può essere considerato un avversario sotto vari aspetti, nonché dall’immedesimazione nella sua persona e nei suoi racconti per comprenderne il vissuto, consente d’individuare, reciprocamente, strade comuni che riescano ad andare oltre la semplice contrapposizione fra persone con idee ed esperienze diverse.

La giustizia riparativa, pertanto, prima ancora di riparare la vittima, ripara il trasgressore. È la stessa Agnese Moro[10] a dire Noi non abbiamo nulla da pretendere, perché i brigatisti il proprio debito con la giustizia lo hanno ripagato. Esiste però un problema di coscienza: a chi ha pagato Bonisoli? Ha pagato una pena retributiva secondo i modelli della giustizia ordinaria, ma i danni causati a chi non era caduto vittima degli attentati, come i parenti delle vittime, restavano invariati.

Una persona qualunque, probabilmente, rifletterebbe sulla possibilità che il tempo possa affievolire od offrire da sé una soluzione. Non è così. Da dietro le sbarre si affrontano le conseguenze delle proprie azioni nella posizione di chi ancora sconta su se stesso un debito pesantissimo, in termini anzitutto di libertà personale. Il vero ostacolo, al contrario, è sapersi libero ed affrontare da libero le conseguenze del proprio crimine.

L’eventuale contatto, però, con i parenti e gli amici delle vittime non può limitarsi ad una semplice stretta di mano. Per quanto riguarda Bonisoli e la sua storia da ex brigatista il cammino è durato ben sette anni. Sette anni di incontri prima tra lui e le vittime, poi con un’ulteriore componente che in ambito normativo, come si è già visto, prende il nome di comunità, ma che potremmo più propriamente definire società civile. Nel suo caso si trattava di giovani ascoltatori guidati negli incontri da alcuni mediatori quali Padre Guido Bertagna, Claudia Mazzuccato e Adolfo Ceretti che hanno avuto il ruolo di facilitatori, in grado di essere, nelle parole di Bonisoli, non già equi-distanti, bensì equi-prossimi, cioè così vicini da veicolare discorsi e racconti connotati da grande verità. Il momento più significativo di questi incontri non erano i racconti e le storie, ma piuttosto quello esattamente successivo, cioè il pranzo in comunione dove non ci si divideva tra vittime e combattenti della lotta armata, ma si stava insieme. In questa semplicità stava l’essenza del tutto. Da premessa di semplice conoscenza si sono, dunque, poggiate le basi di un’amicizia profonda tra tutti i partecipanti. A tal proposito, emblematica è la scelta da parte di Agnese Moro di rivolgersi a Bonisoli definendolo in principio di ogni conversazione amico mio. Risiede in questo il nocciolo duro della giustizia riparativa, giacché permette di far incontrare chi soffre di un male commesso e chi quel male lo ha patito.

Purtroppo, il complesso di colpa è una catena che fa guardare solo al passato, lega a destini precedenti. Il dialogo, invece, muta il senso di colpa in senso di responsabilità, il quale si esplica anche e soprattutto nella necessità di rendere pubblico il percorso che si è compiuto con le vittime dei propri atti. In tal senso, la potenza della giustizia riparativa risiede propriamente nella sua portata. Infatti, se un combattente della lotta armata può pacificarsi con la vittima o il familiare delle vittime che sono la conseguenza delle sue azioni passate, allora c’è da chiedersi perché la maggioranza delle persone non riesca a soprassedere sui motivi di scontro e di litigio quotidiano tra vicini, conoscenti, passanti o amici. La giustizia riparativa nasce forse nel carcere, ma è una soluzione di convivenza poderosa, valida per chiunque. Detto altrimenti, la giustizia riparativa può essere uno strumento di modulazione delle relazioni umane.

Chiaramente proprio come ciascuno di noi può facilmente intuire attraverso le discussioni quotidiane in cui siamo coinvolti, il più alto ostacolo ad un cammino di questo tipo è il primo passo. Ebbene, ancora una volta arriva in soccorso l’esperienza. Lo stesso Bonisoli, infatti, ritiene che la soluzione risieda nel desiderio. Il primo passo deve essere anzitutto desiderato, sapendo, peraltro, che si incontreranno non poche difficoltà. Tra gli ingredienti vi è anche una buona dose di coraggio, necessario nell’affrontare qualcuno di cui si ignorano le possibili reazioni. Bisogna infatti lavorare molto sulle parole, ed in particolare sulla parola responsabili, affinché, appunto, il colpevole, da responsabile, avverta la necessità e l’importanza di fare qualcosa per evitare che altri commettano gli stessi errori. Ulteriore aspetto è la fiducia nelle istituzioni, le quali sono formate da persone e, in particolare, da persone con idee differenti le une dalle altre. È necessaria, altresì fiducia nell’uomo, cosicché senza categorizzare, non giudicando, si cerchi prima di capire la diversità. In seguito, è opportuno prendere coscienza del limite. Coltivare un progetto, infatti, non significa che esso si realizzerà, non significa neppure che i mezzi messi in campo siano quelli giusti. Non lo erano, ad esempio, nel caso della lotta armata. In conclusione, quindi, è necessaria una fiducia nel cambiamento.

La giustizia riparativa, dunque, ricuce ferite interiori, e lo fa mentre si ricuciono le ferite dell’altro. È un’attività d’insieme che guarda sempre avanti e mai indietro, un lavoro di artigiani. A questo riguardo, in una metafora, oggigiorno quando si rompe un vaso siamo abituati a buttare via i cocci e comprarne uno nuovo. Gli arredi hanno spesso un prezzo esiguo e, peraltro, non ci siamo neppure troppo legati. Sovente tutto questo viene fatto anche con le relazioni. I social network, infatti, ci inducono a sottovalutare l’importanza di una persona, perché soppesata di fronte alla possibilità di avere migliaia di amicizie virtuali. Diversamente, potremmo raccogliere i pezzi del vaso frantumato e rimetterli insieme. In questo modo non riavremo un vaso intatto, dal momento che porterebbe con sé i segni dell’urto col terreno. Però, il kintsugi, una celebre tecnica giapponese, prevede di coprire le fratture con della polvere d’oro, cosicché, sebbene diverso, il prodotto di questa operazione possa essere anche più prezioso: da un banale vaso, si ottiene un’opera d’arte. Ecco, questa è la giustizia riparativa.

di Jacopo Rocca e Federico Mannoni


[1] Art. 42 del d.lgs n. 150/2022.

[2] Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, ECOSOC Res. 12/2002 n. 15/2002.

[3] Cfr. Preamble of the Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters.

[4] Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal mattersUse of terms (§3).

[5] La direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Origini, ratio, principi e contenuti della Direttiva recepita dal D. Lgs. 212/2015, di Andrea Diamante, in Giurisprudenza Penale.

[6] Rispettivamente Capo n. 2-3-4 della direttiva.

[7] Capo n. 1, art. 2 della Direttiva.

[8] Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penaleEvoluzione della giustizia riparativa (§65-66).

[9] V. rivolta dell’Asinara del 1979.

[10] Figlia di Aldo Moro, vittima delle BR.