Da sempre sostenitrici e complici, le donne sono state parte integrante della vita mafiosa, portando avanti compiti precisi e fondamentali. La storia recente, però, offre anche esempi di persone che hanno creduto e si sono battute per un mondo migliore, testimoniando e documentando per cambiare la realtà.
Il ruolo della donna all’interno dell’organizzazione mafiosa
La funzione delle donne nel contesto della criminalità organizzata è da sempre ambigua e indissolubilmente legata alla dimensione sociale e culturale dell’organizzazione.
Infatti, nonostante esse siano storicamente escluse dal punto di vista formale, a loro spettano diversi compiti fondamentali. Garantire un futuro all’associazione, procreando; consentire la riappacificazione tra clan, diventando oggetto di accordi matrimoniali; preservare l’onore e la reputazione dell’uomo, mantenendo una vita sessuale irreprensibile, di modo che l’uomo attraverso il controllo della propria donna dimostri la capacità di controllo sul proprio territorio; sono solo i ruoli passivi affidati agli elementi femminili. Esse, difatti, rivestono funzioni attive essenziali per il mantenimento e la costruzione dell’organizzazione. Innanzitutto, a loro è affidata l’educazione dei figli, vale a dire la trasmissione di quei “valori” che caratterizzano la società mafiosa. Di conseguenza, ai ragazzi viene insegnata l’importanza dell’omertà, della vendetta, il disdegno delle pubbliche autorità, la disparità di genere, ecc.; mentre le ragazze vengono educate al rispetto dell’autorità maschile e alla subordinazione. Inoltre, le donne sono responsabili di esortare e ricordare la vendetta, come elemento legato al codice di onore e alla vergogna in caso di mancata realizzazione. Inoltre, spesso vengono incaricate di incarichi come il trasporto e lo spaccio di droga, in cui sono favorite dall’apparente innocenza, o di ruoli come quello di prestanome.
Infine, le femmine subentrano in sostituzione degli uomini nel caso per essi il governo dell’organizzazione sia impossibile, ad esempio in caso di arresto o latitanza. In questo modo, attraverso questo affidamento temporaneo, il proseguimento delle attività è garantito e l’uomo è sicuro che il potere venga custodito e di riuscire a riprenderlo una volta tornato. Benché il coinvolgimento femminile nel tempo sia diventato più sistematico è difficile parlare di una vera e propria emancipazione da parte delle donne.
Quando si parla di donne e mafia però non sono solo gli esempi negativi a spiccare, ma anche storie di persone che sono state in grado di prendere posizione contro questo mondo.
Rita Atria: scegliere la giustizia al posto della vendetta
Proveniente da una famiglia di stampo mafioso, Rita Atria nasce nel 1974 in Provincia di Trapani. Quando Rita ha solamente 11 anni, il padre viene ucciso in un agguato mafioso. Nel 1991, anche il fratello, deciso a vendicare il padre, viene assassinato dalla Mafia. A questo punto Rita decide di seguire l’esempio di sua cognata, rivoltasi alle forze dell’ordine per denunciare i killer del compagno, ed entra in stretta collaborazione con lo Stato, e in particolare con il giudice Paolo Borsellino. Quest’ultimo diventerà per Rita un punto di riferimento, una forma di famiglia e una speranza di poter ottenere un mondo giusto. Grazie a queste testimonianze le forze dell’ordine sono in grado di avviare indagini e compiere numerosi arresti. Dopo che nel ‘92 Borsellino viene assassinato, Rita, persa ogni speranza, si getta dall’ultimo piano dell’edificio dove si era trasferita come forma di protezione, a Roma. Lascia un diario con pensieri e riflessioni, come: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi Combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”.
Lea Garofalo e Denise Cosco: una storia di ribellione e lotta
Lea Garofalo nasce nel 1974 in provincia di Crotone da una famiglia di stampo mafioso. A soli quattordici anni si innamora di Carlo Cosco e decide di seguirlo a Milano, dove lui gestisce un traffico di droga. A diciassette anni rimane incinta e nasce Denise. Quando nel ‘96 Carlo viene arrestato per i suoi affari illeciti, Lea gli comunica durante una visita in carcere la sua intenzione di chiudere la loro relazione per garantire a lei e alla figlia una vita diversa. La reazione del compagno è violenta, Lea decide quindi di portare Denise via da Milano e di testimoniare ciò che aveva visto e vissuto. Purtroppo, la rabbia di Carlo non si esaurisce in quella occasione ma rimane viva e porterà all’omicidio e alla distruzione del cadavere di Lea, durante un incontro volto a discutere un aiuto economico da parte del padre per il futuro di Denise. La figlia, però, che aveva un legame molto stretto con la madre, non crede che l’abbia abbandonata ed è convinta che sia stata assassinata. Decide quindi di andare a processo contro suo padre. Denise, sola contro la sua famiglia, sostenuta però dagli studenti di Milano, che iniziano a partecipare alle udienze per sostenerla, riesce a vincere la causa, grazie ad una confessione di Carmine Venturino. Vive tuttora sotto protezione.
Letizia Battaglia: il coraggio di documentare l’orrore
Letizia Battaglia è una fotoreporter originaria di Palermo, dove nasce nel 1935. In lei presente da sempre il bisogno di essere indipendente, prima dal padre, e poi dal marito. Trova la possibilità di realizzare questo desiderio di autosufficienza e libertà tramite il suo lavoro da fotografa, che inizia nel 1969 con la collaborazione con il giornale l’Ora. Da quel momento, Letizia inizia a testimoniare per mezzo dei suoi scatti la strage che si compie in quegli anni nella sua città. Le sue fotografie ritraggono la ferocia, la violenza e la crudeltà dei continui assassini per mano della Mafia che si compiono in quel periodo. Grazie al suo lavoro, che la espone in continuazione a rischi e minacce mafiose, vince premi e riconoscimenti internazionali. Il contributo di Letizia non si esaurisce nelle sue fotografie, ma si ritrova anche nella partecipazione politica, ad esempio cofonda il centro di documentazione “Giuseppe Impastato”, è consigliera comunale del partito dei Verdi e nel 1991 deputata all’Assemblea regionale siciliana.
In conclusione, se il ruolo delle donne all’interno della criminalità organizzata rimane secondario e passivo, le stesse sono fondamentali nella lotta alla criminalità, perché rappresentano forse ancora di più il riscatto di chi, magari pentendosi o semplicemente denunciando la condizione di vittima, non si arrende davanti alle profonde ingiustizie, sociali e di genere, che permeano la struttura delle comunità nelle quali viviamo.
Qual è il ruolo delle donne nelle associazioni criminali? Quale invece nella lotta alla mafia? Attraverso alcuni esempi, esploriamo un lato spesso trascurato delle narrazioni circa la criminalità organizzata, soprattutto per la scarsa presenza, almeno da un punto di vista numerico. Ma Lea Garofalo, Letizia Battaglia, Rita Atria, con le loro azioni si sono poste al centro delle loro storie, lottando contro stereotipi ed i criminali che opprimevano le loro vite e gli ambienti in cui vivevano.
di Cecilia Manghi