Il giorno 14 aprile 2021, noi di BSOC, insieme ad i ragazzi di TEAM abbiamo avuto la fortuna di incontrare Valeria Pirè, dirigente della casa circondariale di Bari; Armando Punzo, compagnia della Fortezza; Valeria Verdolini,Antigone Lombardia; Alessandra Dolci,Direzione distrettuale antimafia di Milano e come moderatore il Professore di diritto penale Enrico Basile.
Abbiamo discusso della situazione delle carceri italiane, analizzando soprattutto come l’impatto della pandemia ha influito sull’istituto giuridico della concessione della detenzione domiciliare per i detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis. Il professore Basile inizia facendo notare come il tema abbia ricadute giuridiche in termini tanto di interpretazione di norme esistenti, quanto in termini di modifiche normative di legislazione emergenziale. Inoltre, ricadute importanti sono dal punto di vista politico-criminale e dal punto di vista mediatico poiché questi regimi particolarmente severi sono connessi a ragioni di pericolosità, di legami e di altre forme di comunicazione all’esterno.
I temi che toccano sono vari, come quello della ragion di stato, della certezza della pena e della sua esecuzione con l’idea di rieducazione di salvaguardia dell’individuo, poiché il detenuto è un individuo ed in quanto tale oggetto dei diritti della costituzione. L’incontro ha lo scopo di rispondere al dilemma riguardo l’opportunità della detenzione domiciliare, che era stata tradotta dai media come un “liberi tutti”, quando in realtà ha riguardato pochi individui, connotando quindi un impatto davvero ridotto rispetto a quello descritto dalla stampa.
Questi sono i temi che, attraverso due articoli e riprendendo le parole degli illustri ospiti che abbiamo avuto, vogliamo presentare ed approfondire.
Il trattamento sanitario dei detenuti tra carceri, ASL e SAI – Professoressa Pirè
Inizia il dibattito la professoressa Pirè, direttore della casa circondariale di Bari. Spiega come la caratteristica specifica di questa casa sia quella di ospitare un centro clinico dell’amministrazione penitenziaria, cosa ben rara essendone in Italia presenti solo 7. Sono chiamati anche SAI, Servizio Assistenza Intensificata, ed hanno come scopo quello di essere un punto intermedio tra l’assistenza ospedaliera esterna ed una mera assistenza medica intramuraria. La Professoressa spiega come sia stata particolarmente coinvolta nella vicenda “scarcerazioni facili” e come questa si rifletta sulla tematica del contemperamento fra il diritto alla salute e il diritto alla sicurezza ed alla collettività.
Ma cosa significa la presenza di un centro clinico in carcere? Fino al primo aprile 2008 l’assistenza sanitaria penitenziaria dipendeva dal Ministero della Giustizia, quindi tutto il personale medico e paramedico era considerato come parte del suddetto Ministero ed erano presenti specifiche assegnazioni di fondi per l’assistenza sanitaria e penitenziaria. Dopo un lungo dibattito politico si è scelto di portare l’assistenza sanitaria penitenziaria all’interno del Ministero della Salute, per il principio di veder riconosciuto al detenuto il suo status di paziente prima di quello di detenuto così da equiparare la posizione sanitaria tra i cittadini liberi ed i cittadini reclusi. La Professoressa però sottolinea come in quel momento l’assistenza sanitaria non fosse alla altezza e il fatto che questo principio in realtà dalla fase teorica non è mai veramente arrivato alla sua applicazione concreta: infatti, molte sono state le lacune che hanno determinato grosse problematiche attuative. Dovevano essere predefinite a livello centrale tra i due ministeri una serie di questioni che invece sono terreno di confronto e di conquista in ogni singola ASL rispetto ad ogni singola direzione di istituto penitenziario. Il problema principale è che di fatto che dal 2008 in poi diventa asse strategico della sicurezza del paese la questione della salute e della sanità, col “piccolo” particolare che le ASL non si occupano di sicurezza ma si occupano di salute.
Contemperare queste due esigenze spesso crea conflitti, conflitti che si manifestano anche nella quotidianità dei codici comunicativi: quella che può essere una valutazione di urgenza di un medico non viene condivisa dalla polizia penitenziaria (che si occupa di sicurezza dentro il carcere). Nel caso di Bari, il centro clinico si traduce nel possesso di 24 posti, un piccolo ospedale all’interno dell’istituto. La ratio fondamentale è di fare in modo che alcune prestazioni possano essere assicurate all’interno del carcere, così da non condurre il detenuto fuori.
Tutto ciò significa costi per la ASL e per la Regione, i quali vengono indirizzati al carcere rispetto al territorio e a quelli che possono essere gli obiettivi di miglioramento gestionale della assistenza sanitaria per un cittadino libero. Quello che quindi può essere per la amministrazione un vantaggio poiché è un rafforzamento della sicurezza e delle potenzialità diagnostiche della prevenzione, non necessariamente lo è per la ASL. Le ASL hanno quindi dovuto iniziare ad occuparsi di questo aspetto, capendo che non è uno spreco investire nelle risorse delle case circondariali: avere adeguati strumenti in carcere determinano sia un intervento diagnostico-medico, sia ad esempio la prevenzione di gravi malattie. Questo va a confliggere però col fatto che il detenuto non ha una precedenza rispetto ai cittadini e qui interviene il problema dell’opinione pubblica, che non condivide il fatto che un detenuto dovrebbe avere precedenza rispetto ad un cittadino normale. Una risposta potrebbe essere basata sul fatto che lo Stato ha, nei confronti della persona ristretta, una responsabilità diversa: il detenuto non può ad esempio detenere in cella dei farmaci. I parametri di sicurezza dell’assistenza sanitaria in un istituto detentivo sono ben diversi da quelli ad esempio dell’ospedale o di altri contesti di assistenza sanitaria.
Le riserve del 2008 erano appunto questo, un cittadino libero ha ad esempio in caso di mal di testa la assoluta libertà di farsi prestare un farmaco da un vicino. Il detenuto no. Se ho mal di testa in carcere e necessito di un farmaco, ho bisogno di medico che lo prescriva, con le indicazioni in cartella che quel farmaco può essere assunto, di un infermiere che venga a somministrartelo e di un poliziotto che chiami l’infermiere. Anche all’interno i detenuti possono comprare i farmaci ma il modello è chiaramente farraginoso: deve fare la domanda secondo il modello 393, questa domanda passa dal comandante e dal medico che deve attestare che può prendere questo farmaco e poi questo viene acquistato all’esterno. Poi deve essere conservato in infermeria per assumerlo quando ne ha bisogno. E’ chiaro quindi come lo Stato abbia un livello di responsabilità nei confronti della assistenza sanitaria del paziente detenuto sicuramente superiore rispetto ad altre situazioni: il ritardo di una valutazione diagnostica determina delle conseguenze dirette, di carattere medico-legale.
Si determina soprattutto una convergenza necessaria tra responsabilità del direttore dell’istituto penitenziario e la responsabilità del direttore dell’istituto sanitario. Nel caso in cui il detenuto abbia una patologia che deve essere trattata con urgenza ed il medico certifica che c’è una situazione d’urgenza, data la tempistica molto ristretta, colui che autorizza l’uscita dal detenuto dal carcere per essere condotto al pronto soccorso dell’ospedale è il direttore (articolo 17 del DPR del 2000); chiaramente il grado d’urgenza sarò determinato dal medico.
Il professore Basile interviene chiedendo e sottolineando come un’istituzione così complessa e con queste sfaccettature si rapporta ad un’emergenza assolutamente inattesa e priva di precedenti quale la pandemia da Covid-19. Riprende allora la parola la professoressa Pirè sottolineando che quando è esploso il Covid ovviamente nessuno fosse preparato e quindi ci sono stati diversi problemi da affrontare contemporaneamente: quello dell’emotività, perché ovviamente Bari non è un carcere grandissimo, ha 430 detenuti in media ma è un numero che è caratterizzato da sovraffollamento perché in realtà la capienza è 299, quindi le tensioni e le paure all’interno sono state le stesse delle persone all’esterno libere, con l’aggiunta però del problema di dover organizzarsi quasi quotidianamente, in adeguamento a quello che succedeva all’esterno ed alle normative DPCM, alle ordinanze regionali e le circolari del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Una organizzazione che si era quasi cristallizzata in decenni è stata rivoluzionata e rivista quasi quotidianamente in esecuzione di quello che veniva disposto dall’alto o dovendo prendere invece decisione nell’immediato lì dove c’erano situazioni non prevedibili. Decisioni, come l’interruzione dei colloqui visivi, che in alcuni casi hanno portato a rivolte, anche violente come nei casi di Foggia o Melfi. Rivolte che trovano il loro fondamento anche nella non comprensione da parte dei detenuti del fatto che tali decisioni sono prese per il loro bene; ad esempio nella casa circondariale di Bari il 70% dei detenuti è del territorio immediato, quasi tutti avevano legami familiari e quindi colloqui attivi all’improvviso interrotti. Si è dovuto allora organizzare il sistema di video chiamate, non avendo un cablaggio, non avendo strutture e browser, così da deflazionare la tensione. E’ stato organizzato tutto il sistema, comprese le zone filtro, dedicando un reparto di 19 posti soltanto per gli ingressi dall’esterno, sottoponendo a tampone tutti coloro che sarebbero arrivati, ricordando che in quel momento storico le forze di polizia non avevano le mascherine quindi quando portavano dei detenuti era necessario questa zona filtro. Cosa è successo? E’ successo che pur rimanendo con picchi di sovraffollamento piuttosto elevati, si è avuta una popolazione detenuta contraddistinta da notevoli fabbisogni sanitari, da patologie molto gravi, specialmente poiché avendo il centro clinico vengono assegnate persone in situazioni di gravità notevole. Di fatto il 70% della popolazione detenuta del carcere di Bari è affetta da patologie.
La Fortezza: il teatro e le visite nel carcere di Volterra ai tempi del Covid – Armando Punzo
Il professore Basile enfatizza come la casa circondariale sia una istituzione totale, un luogo di regole, ma anche di grande umanità in senso ampio e omnicomprensivo del termine. Ed è proprio rispetto a questo tema che passa la parola al signor Punzo, fondatore dell’associazione “La Fortezza” e di come ha risposto per supportare le persone che si trovano ristrette.
Il dottor Punzo sottolinea come lui nel carcere di Volterra sia Armando Punzo, regista di teatro; ha fondato 33 anni fa la compagnia, trascorrendo questo tempo con un’idea particolare: quella di essere una vera e propria compagnia di teatro, avente vita e sede all’interno del carcere. Il carcere è il massimo della chiusura che possiamo immaginare, il teatro, all’opposto, è il massimo dell’apertura nel senso che tutto si può fare attraverso il teatro: due mondi filosoficamente contrapposti. Quando arriva la pandemia il commissario del carcere di Volterra e la direzione hanno provato a far restare il signor Punzo, visto il forte rapporto e la forte incidenza che ha sui detenuti la associazione, facendone molti parte. Dal periodo di marzo fino a quando non si è potuti rientrare, il lavoro è stato svolto online, con l’ausilio di tutti i collaboratori disseminati sul territorio nazionale. L’utilizzo di Internet sarà comunque un arricchimento, anche dopo la pandemia, permettendo maggiori possibilità di sviluppare al meglio certe attività di comunicazione tra l’interno e l’esterno.
Un altro aspetto importante è rispetto alla questione delle vaccinazioni; il carcere andava trattato come le RSA ed altre situazioni dove le persone sono gruppi che sono obbligati a stare insieme: bisognava provare a vaccinare immediatamente detenuti, personale e tutti gli operatori; un’idea del genere però avrebbe avuto opposizione nell’opinione pubblica, ma avrebbe in realtà evitato le scene terribili che abbiamo visto in televisione dove istituti all’improvviso sono scoppiati.
di Francesco Musumeci e Vincenzo Carraturo