//A colloquio con il Procuratore capo di Palermo

A colloquio con il Procuratore capo di Palermo

«Per capire la mafia bisogna tenere presenti due termini: complessità ed elasticità. […] Si sta evolvendo, il suo interesse è che se ne parli poco, perché meno se ne parla, minore è la pressione dello Stato»

Procuratore, Lei ha assunto il suo attuale incarico qualche mese fa in un ambiente difficile, in un palazzo che qualcuno in passato ha definito “il palazzo dei veleni”. In base a questi suoi primi mesi, quale percezione della mafia ha potuto riscontrare presso la cittadinanza palermitana. Vede ancora una componente di omertà radicata nella popolazione?

«Sono Procuratore di Palermo da cinque mesi, ma conosco benissimo la città perché ho fatto tutta la mia carriera a Palermo. Sono stato 18 anni sostituto procuratore a Palermo, dieci anni nella Direzione Distrettuale Antimafia ed otto anni nella Direzione Nazionale Antimafia occupandomi del coordinamento delle indagini sul capoluogo siciliano. Per cinque anni ho rivestito l’incarico di Procuratore a Messina e da qualche mese nuovamente a Palermo, di cui, dunque, conosco la città ed il palazzo. Uno degli sforzi di chi ha un compito direttivo è cercare di far cambiare quell’immagine di palazzo dei veleni che il palazzo di giustizia di Palermo si porta dietro. Questo perché i veleni ci sono stati, soprattutto nella stagione degli anni ‘80, durante la quale Falcone ha lavorato lì insieme a tanti altri che parlavano alle sue spalle. Lo sforzo è quello di continuare a ripulire quel palazzo da questa antica nomea, che oggi non è più presente. Avendo sempre lavorato su Palermo, ho seguito l’evoluzione di Cosa nostra e di chi la subisce o ci convive. Palermo, e tutta la Sicilia, sono realtà molto complesse e in queste realtà c’è chi la mafia la combatte, chi la ignora finché non la incontra e chi quando la incontra o soggiace o si compiace. Questa è la situazione della società siciliana, con delle differenze tra i luoghi più evoluti e quelli meno evoluti. Nei borghi, nelle borgate di Palermo, nei piccoli centri del palermitano, dell’agrigentino e del trapanese la presenza mafiosa è classica e l’intimidazione è più presente che in altri ambienti di Palermo. Da alcune di queste aree ci si aspetterebbe una reazione di contrasto alla mafia, ma non sempre la si incontra, perché spesso si incontrano quelli che con la mafia cercano l’accordo, consapevoli del fatto che si possono ottenere dei vantaggi in cambio di favori. Per capire la mafia bisogna tenere presenti due termini: complessità ed elasticità. Da un lato la mafia è un fenomeno complesso in cui raramente si incontrano il bianco ed il nero, mentre dall’altro è elastica perché esiste da oltre 160 anni e si sa adeguare agli attori esterni con cui si relaziona, in particolare con lo Stato».

Lei è entrato in magistratura nei primi anni ‘90, cosa significa per un magistrato come lei essere entrato in contatto con Falcone e Borsellino e altri del loro calibro?

«Ieri ho fatto il compleanno: ho compiuto 33 anni in magistratura e sono arrivato a Palermo nel maggio 1991. La mia conoscenza di Falcone è stata estemporanea, con Borsellino, invece, la frequentazione è stata più intensiva perché negli ultimi mesi della sua vita è venuto a Palermo a fare il Procuratore aggiunto, ma io ero sempre giovanissimo e stavo dieci passi indietro. Queste due figure le ho studiate molto. Sul piano tecnico ho appreso il metodo di Falcone: come scriveva, come interrogava. Sul piano personale è stato un fatto anche più importante caratterizzato dalla tragedia del maggio e del luglio 1992, che segna la storia di questo Paese. C’è una grande attualità in quello che è successo e nell’eredità che questo ha portato sulle generazioni nuove: tutti sanno chi erano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».

La mafia è una storia lunga almeno 150 anni, nella seconda metà del 1900 l’attacco alle istituzioni sembrava più evidente, adesso meno. Fa parte di una strategia? È possibile parlare di vecchia e nuova mafia oppure dovremmo parlare di trasformazione?

«È un’analisi che stiamo facendo anche noi. Per capire cos’è la mafia bisogna fare i processi e raccogliere le prove e soprattutto bisogna studiarla, perché se la studiamo abbiamo gli strumenti per confrontarci e per combatterla. Paradossalmente la mafia di oggi somiglia molto alla mafia dell’altro ieri perché in questi 160 anni ha sempre convissuto con lo Stato ed è stata consapevole dei suoi limiti e dei suoi scopi, in particolare, appunto, convivere sullo stesso territorio con un’altra entità che ha i caratteri della statualità. La mafia ha sempre cercato l’accordo. Se pensiamo alla sua storia, i momenti in cui diventa ostile politicamente rispetto allo Stato sono pochissimi. Ricordo, un omicidio eccellente fu quello di Emanuele Notarbartolo, sindaco di Palermo, assassinato in treno nel 1901 mentre andava a Termini Imerese, da cui scaturì un processo importante che non portò all’identificazione dei colpevoli (come spesso accadeva nei processi del tempo). Poi c’è stata la stagione immediatamente successiva al secondo dopoguerra, caratterizzata dalla lotta per le terre e l’azione-reazione dei latifondisti e quindi l’uso della mafia di cui testimonianza sono l’assassinio di alcuni sindacalisti dell’agrigentino e del corleonese, soprattutto. La terza stagione di violento attacco allo Stato è quella che abbiamo conosciuto dal 1978 al 1993, con alcune successive propaggini.

Queste tre suddette fasi sono le eccezioni ad una regola in forza della quale la mafia ha sempre cercato di convivere con lo Stato per perseguire i suoi due obiettivi: l’accumulazione di potere e l’accumulazione della ricchezza. Oggi Cosa nostra sta cercando di tornare al modello tradizionale: non si fa la guerra allo Stato, ma si cerca di convivere. Ciò in parte per sua natura e in parte perché questo dipende anche dagli altri attori presenti sulla scena (di cui lo Stato resta il più importante). In effetti, una caratteristica di questi 32 anni che ci separano dalla stagione stragista sta nella reazione dello Stato, che non è episodica. Mentre in passato abbiamo avuto eventi violenti (come l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Pio La Torre, di Piersanti Mattarella) che hanno causato una reazione istantanea, ma non duratura, a partire dal 1992 le cose sono cambiate e questo perché la risposta di repressione dello Stato è stata non solo incisiva, ma anche caratterizzata dalla continuità. Quest’ultima è importante perché destabilizza e destruttura l’organizzazione, che non ha più la capacità di individuare nuovi capi dal momento che sono o braccati o, quando catturati, posti nel regime carcerario del 41-bis, il quale impedisce loro di continuare a comandare. Tutto questo fa sì che l’organizzazione si adegui e voglia tornare a fare gli affari del passato; bisogna però osservare con quale capacità, con quale forza e con quale potenza (oggi sono minori rispetto a quelle che abbiamo conosciuto nel secolo scorso)».

Lei, appunto, sottolineava come la forza di azione violenta, militare, della mafia stragista è diminuita molto. Considera, dunque, le organizzazioni come indebolite, oppure la mafia, essendo la fase stragista un’eccezione, si sta solo evolvendo?

«Si sta evolvendo, il suo interesse è che se ne parli poco, perché meno se ne parla, minore è la pressione dello Stato e maggiore la possibilità di riorganizzarsi. In questo senso si sta, per così dire, evolvendo. Dopodiché questo tipo di evoluzione noi lo seguiamo, perché una grande differenza tra il secolo scorso e gli ultimi trent’anni risiede nel fatto che anche noi abbiamo acquisito un patrimonio di conoscenze verso Cosa nostra enorme che ci consente di individuarne la prospettiva e gli associati a mano a mano che li incontriamo.  Per tale ragione, sebbene sia costante il suo tentativo di acquisire sempre più potere, oggi è costretta a fare i conti con le strutture dello Stato, che hanno dato prova di un’efficienza assolutamente significativa».

Oggi la mafia si sta infiltrando sempre di più nel circuito economico, ma parallelamente a ciò sta intrecciando rapporti con l’estero. Come interpreta questi contatti e come ritiene sia possibile sensibilizzare verso una mafia sempre più diffusa, ma allo stesso tempo difficilmente visibile e non autoctona?

«In realtà la mafia siciliana ha sempre coltivato rapporti con alcune parti del mondo, perché i flussi di immigrazione del Sud Italia hanno fatto sì che laddove si collocassero delle comunità meridionali anche gli aspetti più deteriori di queste comunità, e quindi il crimine organizzato, trovassero spazio. Spazio che è stato coltivato senza mai interrompere i contatti con la casa madre. Ciò vale anche per Cosa nostra, che intrattiene rapporti col Sud America ed in particolare con il Nord America, dove tutt’ora le più importanti famiglie di mafia italo-americana continuano a gestire un potere molto importante, ma in una dimensione per cui il lavoro sporco non lo fanno più loro, ma è subappaltato alle gang sudamericane o a gruppi di immigrati clandestini. I grandi affari, a cui però è maggiormente dedita l’ndrangheta, riguardano soprattutto il traffico internazionale di stupefacenti. Per rendere l’idea: se noi volessimo investire 50 euro in un chilo di cocaina, ne potremmo ricavare fino a 50 mila euro, da ciò si vede bene come il valore aggiunto di questa merce è impressionante. I grandi cartelli criminali del mondo fanno riferimento a questi affari e rendono fortissime le organizzazioni criminali centro americane, in particolare quelle messicane, ma rendono forti, in un mondo più complesso come l’Europa, le organizzazioni tradizionali italiane. Cosa nostra, rispetto all’ndrangheta, conserva i tradizionali rapporti di affari con queste organizzazioni, in particolare Cosa nostra americana, però, non siamo più negli anni ’80, quando Giovanni Falcone inventò la collaborazione con FBI di Louis Freeh e Rudolph Giuliani con il famoso processo Pizza connection, ma siamo in un mondo in cui le nostre connessioni anche giuridiche con questi mondi sono molto più stabili. Io fino a ieri ho presieduto una riunione a Palermo con esponenti dell’FBI per coordinare delle indagini che hanno dentellati tanto a Palermo quanto a New York.

Quindi da questo punto di vista è vero che loro sono globalizzati, ma anche noi siamo attenti a globalizzarci. La maggiore facilità delle organizzazioni risiede nel fatto che non devono sottostare a regole che non siano le loro, noi invece abbiamo tutta una serie di problemi giuridici legati alla differenza delle legislazioni e degli strumenti investigativi. Ci sono cose che noi italiani possiamo fare in modo semplice, mentre, ad esempio, gli americani no, e, viceversa, esistono iniziative degli americani che se attuassimo qui ci porterebbero sotto processo».

Procuratore a tal proposito la ‘ndrangheta ormai attraversa tutti e cinque i continenti e si dice tratti ormai alla pari con i maggiori cartelli del narcotraffico…

«Si, ma bisogna anzitutto comprendere come evolverà questa struttura. Essa nasce in maniera pulviscolare. C’è un articolo di Giovani Falcone del 1991 che trascrive una sua lezione a funzionari di polizia svizzeri, in cui definisce le tre mafie italiane con il carattere dell’unitarietà per Cosa nostra e della pulviscolarità per le camorre e la ‘ndrangheta, dal momento che quest’ultima è frazionata in ‘ndrine e locali. Nel momento però in cui bisogna andare a trattare su scacchieri internazionali in cui ci sono delle controparti organizzate e potenti, bisogna mostrare lo stesso grado di potenza. Si creano quindi dei fenomeni che tendono ad unificare le strutture ndranghetiste sul modello che fu di Cosa nostra. Quest’ultima per costituzione originaria ha una struttura di tipo federativo con al vertice la Commissione, al di sotto i mandamenti che controllano i territori e le famiglie quali componenti dei mandamenti. Da questo punto di vista, studiare Cosa nostra rappresenta un modo per capire verso quale direzione può andare l’ndrangheta. Ciò detto molte sono le influenze e le evoluzioni della ’ndrangheta, io mi tengo il mio giardino».

Certo, però, dei passi avanti sul piano giuridico sono stati compiuti anche all’estero? Ad esempio, in Canada avevano una legislazione arretrata dal punto di vista dell’antimafia, nonostante la presenza mafiosa fosse rilevante…

«Ma questo è un fenomeno che si realizza anche nel Nord Italia, cioè si pensa sempre sia un problema dei siciliani, dei napoletani e dei calabresi, finché il problema non si scopre di averlo in casa.

I tedeschi per molti anni non hanno collaborato, quando una mattina trovarono sette morti in un ristorante a Duisburg capirono che era il caso di attivare forme di collaborazione più intense con le autorità giudiziarie italiane».

Procuratore, anche al netto di fenomeni quali la globalizzazione a cui abbiamo più volte detto le organizzazioni hanno aderito, che ruolo ha nella mafia contemporanea il concetto di famiglia?

«“La famiglia è sacra”, dicono i mafiosi. Le violazioni delle regole sul rispetto interfamiliare sono sanzionate anche con la morte. La ragione per cui volevano uccidere Buscetta e uccisero tutti i suoi familiari formalmente era che Buscetta aveva una vita dissoluta perché aveva lasciato la moglie ed intratteneva relazioni con altre donne. Dopodiché esistono delle regole e c’è l’interpretazione delle stesse. Tutti i vertici di Cosa nostra, forse ad eccezione di alcuni storici capi dei Corleonesi, avevano molteplici mogli con amanti di varia natura. Dunque, c’è un’importante soglia di ipocrisia in questo rispetto delle regole ed in particolare nel loro rifarsi alle regole della fede cattolica.

Il comandamento “non uccidere” non viene rispettato, mentre altre opzioni formali guai a non farlo».

Alla luce della natura attuale di Cosa nostra è più difficile attuarne un contrasto sistematico? Esistono dei reati a cui prestare maggiore attenzione?

«Ci fu un tempo in cui c’erano molti omicidi a Palermo, ma i morti sono stati molti di più di quelli che abbiamo trovato, perché la tecnica omicidiaria perfetta è quella della lupara bianca, cioè non solo uccidi la tua vittima, ma la fai sparire. In questo non c’è ferocia, ma razionalità, perché senza corpo non è neanche detto che la presunta vittima sia morta. Non è un caso, infatti, che le voci messe in circolazione immediatamente dopo la scomparsa di alcune persone riferivano di fughe insieme all’amante, quando, in realtà, questi soggetti si trovavano in un bidone dell’acido. L’idea di far sparire le prove e tacere rende più facile la vita dell’organizzazione, c’è meno allarme sociale. Oggi che gli omicidi di mafia si sono ridotti bisogna guardare ai reati spia, cioè forme di manifestazione del reimpiego dei capitali. Perché se abbiamo detto che con 50 euro su un chilo di cocaina ne otteniamo 50 mila, sussiste anche il problema: cosa ne faccio di questi 50 mila euro? Il problema delle organizzazioni mafiose oggi è quello di reinvestire i proventi derivanti dai grandi traffici, soprattutto di stupefacenti e non solo. Tutti i reati sintomatici di movimenti di denaro sono quelli che noi scrutiniamo per individuare l’esistenza del fenomeno mafioso. Quando si fanno fatture per operazioni inesistenti si offre la possibilità di celare dietro quei costi dei ricavi che non vengono dal normale commercio, ma dall’intromissione nel mondo legale di denaro sporco.

Inoltre, una forma importante di responsabilizzazione degli imprenditori sarebbe utile, perché laddove le imprese sono in crisi le mafie non lo sono: il problema della liquidità che hanno le imprese è il problema contrario delle mafie, se le prime hanno bisogno di denaro, le seconde sono pronte a darglielo.

Però bisogna anche capire che una volta accettati i soldi della mafia, insieme al denaro si porta in casa anche il mafioso, con il rischio che l’intera impresa diventi mafiosa».

Una volta Falcone riferendosi ai vari delitti di mafia ha detto: “Tutti sanno rispondere, ma nessuno lo vuole fare”. A quali criteri risponde oggi l’omertà e che ruolo ha il pentitismo?

«Tutti sanno rispondere, ma nessuno vuole parlare, così disse Giovanni Falcone…

Il pentitismo è un fenomeno che è stato importante e lo è tutt’ora, perché il carattere di Cosa Nostra è quello di un’organizzazione segreta e fondata sull’omertà. Fino a qualche anno fa si negava l’esistenza stessa di Cosa Nostra, ma per sconfiggere quest’organizzazione non basta scoprire i reati che commette, bisognerebbe piuttosto sapere come funziona, come pensa, e per farlo ci vogliono soggetti che sono stati dentro l’organizzazione, che ne escono e raccontano allo Stato come funziona. Dunque, il ruolo dei collaboratori di giustizia, questo è il loro termine giuridico, rimane fondamentale. Sono loro che ci dicono cosa sta succedendo all’interno dell’organizzazione mafiosa, oppure sono le intercettazioni»

Un anno fa abbiamo festeggiato i quarant’anni della legge Rognoni – La Torre che potremmo definire la genesi della legislazione antimafia. Oggi abbiamo anche un codice dell’antimafia. La legislazione si è sicuramente evoluta, dobbiamo limitarci a conservare, a difendere quello che abbiamo, oppure c’è ancora qualche battaglia legislativa da fare?

«Quando mi fanno questa domanda io rispondo sempre “lasciate tutto come sta, grazie, ce la vediamo noi”, perché ogni volta che si tocca un pezzo del sistema, non soltanto del sistema della legislazione antimafia, ma di tutta la legislazione processuale penale, senza aver il quadro d’insieme, si rischia di causare danni, anche in buona fede. Quindi o si fanno riforme di sistema oppure è meglio lasciare stare le cose come stanno, perché tutto sommato funzionano, e anche bene. Quello che manca in alcuni settori, in particolare in quello del processo penale italiano, cioè il comparto della giustizia inteso come magistratura, sono le risorse. Bisogna aumentare notevolmente le risorse per mettere a regime un sistema veramente efficiente; ciò richiede una riforma di sistema, che non riguardi, però, la legislazione antimafia, ma l’intero processo penale, perché così com’è il processo penale non funziona, non può funzionare e secondo me non funzionerà mai nel suo complesso.

La mafia, infatti, trova spazio nel momento in cui lo Stato non è in grado di dare una sua risposta ai problemi della gente. Il problema della giustizia, anche di quella minuta, riguarda la gente comune.  Ad esempio, per una disputa che riguarda la proprietà di un terreno, rivolgersi ad un giudice vorrebbe dire iniziare una causa di cui si conosce il giorno d’inizio, ma non si sa quale generazione dei propri eredi ne vedrà la fine. Se, invece, ci si rivolgesse al capomafia che controlla quel mandamento e si chiedesse a lui non di avere ragione, ma di dirimere la controversia, il che è ancora più grave, si rafforzerebbe la mafia e si indebolirebbe lo Stato. Senza entrare nei grandi meccanismi della legislazione antimafia, quello che si deve fare è riordinare l’intera materia del processo penale, delle garanzie certamente, ma anche dell’efficienza di questo processo, sia con risorse materiali che con strumenti giuridici diversi da quelli che abbiamo in questo momento».

In queste settimane si è mossa una critica ad alcuni strumenti antimafia, nella direzione di maggiori garanzie, a riguardo delle intercettazioni e del 41-bis. Lei reputa che siano strumenti ancora attuali, utili?

«Li ho citati in tutto il corso di quello che ci siamo detti. Innanzitutto, bisogna studiare e sapere di cosa si parla, poi, se applicati nella giusta maniera, sono strumenti irrinunciabili nel nostro apparato di contrasto alle mafie. Le intercettazioni sono l’alternativa al collaboratore di giustizia per sapere cosa avviene all’interno dell’organizzazione mafiosa.

Per quanto riguarda il 41-bis bisogna avere consapevolezza di cosa sia questo strumento, perché nell’immaginario collettivo, aiutato molto da una stampa che va, come dire, “ad un tanto al chilo”, si tratta sostanzialmente di una pena ulteriore oltre all’ergastolo, immaginando che esso sia una forma di supplizio che aggrava la pena detentiva. In realtà, è una misura di prevenzione, nasce con lo scopo di impedire che i capi delle famiglie mafiose in carcere continuino a fare quello che facevano fuori dal carcere. Negli anni ’80 il carcere di Palermo era chiamato “il Grand Hotel Ucciardone” perché i capimafia lì erano trattati meglio di come erano trattati a casa loro. Si rendeva necessaria una misura che impedisse ai capi di continuare a comandare all’interno del carcere, e questa fu l’applicazione di un regime il cui scopo deve essere solo quello di impedire questo tipo di comunicazioni; non è una misura più afflittiva e va applicata non a tutti i mafiosi o al più “cattivo” di tutti, ma al più pericoloso. Mi spiego: io non ho richiesto questa misura per i killer che avevano commesso decine di omicidi, dal momento che la misura andrebbe invece applicata a chi li aveva ordinati. Intendiamoci, possono anche essere soggetti apparentemente fragili, vecchi, malati, però con una testa funzionante e in grado di far funzionare l’intera organizzazione; questi soggetti verranno posti in condizione di non poter comunicare con l’esterno, ma poi ci dobbiamo fermare lì, non è una pena in più, non dobbiamo immaginare altro che un rigoroso meccanismo di verifica della possibilità di comunicazione di questi soggetti con altri soggetti che stanno all’esterno del carcere».

Ci manteniamo sul piano dell’attualità, parliamo dell’evento che è finito sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, ovvero l’arresto di Matteo Messina Denaro, colui che viene considerato come l’ultimo capo dei capi di Cosa nostra. Sarebbe possibile sapere se, a suo parere, dopo quest’evento finisce un’era per Cosa nostra? Scorge nuove possibilità che venga eletto un nuovo capo?

«Matteo Messina Denaro non è mai stato il capo di Cosa nostra, lui è stato un importantissimo esponente di Cosa nostra in generale e il capo della provincia di Trapani dopo la morte di suo padre, perché anche lì c’è un meccanismo dinastico di successione al vertice dell’organizzazione. Sicuramente, e questo è un fatto storico, si arresta l’ultimo dei partecipi alle stragi del 1992 – 1993, che simbolicamente può anche significare la fine di un determinato periodo, ma in realtà abbiamo detto che la mafia è in continua evoluzione, e aveva già compreso l’errore che era stato fatto con le stragi del ’92-’93. L’evoluzione dell’organizzazione è quindi già andata in qualche modo oltre, ma di certo si è tolto dal circuito criminale un soggetto attivissimo, come le indagini, di cui non posso parlare, stanno dimostrando, e un punto di riferimento in ogni caso per Cosa nostra. Dunque, potremmo dire che lui si pone a cavallo di questo tentativo di trasformazione dell’organizzazione, anche perché dal punto di vista generazionale era uno dei più giovani partecipanti delle stragi del ’92 – ‘93».

Non teme che a causa dell’arresto di Matteo Messina Denaro e quindi della decapitazione del vertice, le organizzazioni mafiose diventino ancora più prudenti e meno compenetrabili? Come si evolverà il tema della gestione del territorio?

«Lo si teme sì, ma inevitabilmente l’alternativa non poteva essere che lui continuasse ad essere libero. È evidente che intanto si pone fine ad una latitanza che per la Repubblica era inaccettabile, perché un uomo che per trent’anni è un pericoloso latitante, per lo Stato è un vulnus, e quindi lo Stato riafferma la sua sovranità su quel territorio ed è molto importante, non soltanto per la polizia, per i magistrati, ma soprattutto per i cittadini. È chiaro che anche i mafiosi imparano dai loro errori, e quindi il tentativo di sommersione tenderà a diventare ancora più importante, però questo rientra negli schemi del contrasto, noi abbiamo delle importanti strutture che non sono solo investigative, ma anche di analisi del fenomeno mafioso. Ad esempio, il lavoro che fa la Direzione Nazionale Antimafia, la quale non fa indagini, ma studia in maniera molto approfondita i fenomeni della criminalità organizzata, ci può dare degli indizi importanti per cogliere questi mutamenti».

Parlando di Messina Denaro, i giornalisti e l’opinione pubblica hanno rilevato aspetti forse folcloristici, semiseri, si è ad esempio notato come spesso, in alcuni audio che si sono sentiti, Messina Denaro utilizzasse un linguaggio forbito, che non corrisponde con quell’immagine del criminale che a volte viene stereotipato quale ignorante o comunque persona non formata. Di recente si parla di reati legati ai colletti bianchi, all’economia finanziaria perseguiti attraverso i cosiddetti rampolli mafiosi, cioè figli di mafiosi che si laureano e si formano con gli studi. Si nota questa trasformazione? C’è veramente un cambiamento?

«È quello che dicevo prima parlando della mafia italoamericana contemporanea, che non è più quella dei tempi del “Padrino” che risolveva tutto a colpi di lupara o tagliando la gola alla gente, o meglio lo fa ancora, ma lo subappalta ad organizzazioni criminali anche più violente, ma meno intelligenti, come appunto le bande organizzate nei vari quartieri di New York.  I rampolli delle grandi famiglie mafiose americane oramai di mestiere fanno i manager, hanno studiato nelle migliori università americane e amministrano ingenti capitali nati dal denaro sporco dei grandi traffici illeciti che Cosa nostra americana ha gestito per decenni. Cosa Nostra italiana e anche la ‘ndrangheta in qualche misura hanno un progetto di questo tipo, chiaramente noi non siamo favorevoli al fatto che i mercati sporchi inquinino il mercato legale. Il livello di attività investigativa è anche volto ad individuare quei gruppi mafiosi che effettuano una trasformazione, tendendo sempre più verso il colletto bianco, dopodiché anche qui è una questione generazionale: i mafiosi della generazione precedente, quali Totò Riina e Bernardo Provenzano, non si esprimevano in maniera forbita perché frequentavano un ambiente culturalmente basso, però esprimevano un carisma che consentiva loro di fare i capi. Il carisma prescinde dal livello culturale delle persone. Ad esempio, Hitler non era questo grande intellettuale, però ha portato un popolo ad una guerra con gli effetti che ne sono conseguiti, quindi, ripeto, carisma, cultura e capacità di esprimersi sono fattori in qualche misura indipendenti quando si parla di mafia, ma naturalmente, siccome anche i mafiosi vivono il loro tempo, un mafioso della generazione successiva a Riina ha strumenti culturali più importanti. Un mafioso della vostra generazione lavora con gli strumenti digitali».

Anche alla luce dei grandi sacrifici che esso sicuramente comporta qual è la motivazione che l’ha spinta a fare questo lavoro?

«Questo lavoro si fa intanto perché è un mestiere che io ricomincerei a fare tutti i giorni, però per farlo in un certo modo il presupposto di fondo è la passione civile, cioè un magistrato non deve essere un combattente, deve riconoscersi negli ideali e nei valori della Repubblica scritti nella Costituzione e nei suoi grandi martiri. Ecco, queste sono le motivazioni di fondo, dopodiché a nessuno è richiesto di fare l’eroe, ma a tutti è richiesto di comportarsi da cittadini. I magistrati secondo me lo devono fare in maniera più rigorosa di altri, benché il diritto alla cittadinanza dovrebbe essere da tutti praticato e salvaguardato, quindi anche da voi, anzi da voi più che dagli altri».

di Eugenia Carretta, Liliana Granitto, Jacopo Rocca